Spente le candele, svaporato l’aroma di ceralacca, i pacchi con gli elaborati d’esame sono nelle cantine delle rispettive scuole, sperando di non doverli riaprire per qualche ricorso. Sospeso tra luci ed ombre è invece Serafino Gubbio, e vorrei partire da lì. Tra le tracce di quest’anno c’è infatti un brano preso dalle primissime pagine di quel romanzo minore di Pirandello (prima ed. 1915), nel quale il narratore in prima persona spiega di essere ormai un tutt’uno con la sua macchinetta: solo una mano che gira una manovella. Si richiede l’analisi del testo e di fare collegamenti sui problemi legati allo sviluppo tecnologico.



Non voglio sapere cosa ci fosse scritto negli elaborati che abbiamo corretto noi né in quelli scritti da altri. Ma se fosse uscita una sagra della banalità “fuori tema”, sarebbe stata indotta proprio da chi ha scritto la traccia. È vero che, in pieno Futurismo, Pirandello irride il progresso tecnologico, però allo studente del 2024 non si spiega cosa fosse quella macchinetta con cui l’operatore Gubbio finiva per identificarsi.



E, per fare il boomer, potrei dire che da qui esce un epic fail addirittura cringissimo.

Quella era una cinepresa, dell’industria del cinema allora in frenetica espansione, ed è soprattutto verso quel mondo che Pirandello scatena il suo sarcasmo. I fatti e personaggi che racconta anticipano pari pari quel che oggi vediamo in ogni reality show: la macchinetta si è amplificata nei cellulari con cui tutti siamo contemporaneamente operatori, attori e spettatori. Abbiamo gli stessi tic, le stesse paranoie, confondiamo il reale e il rappresentato; Vania Nestoroff e i suoi spasimanti recitano sé stessi come degli influencers, e la tensione del compiacersi e rappresentarsi può diventare un’ansia realmente mortale. La fredda atrocità dell’episodio finale è la stessa di chi oggi filma placidamente i pestaggi o i bombardamenti, che poi commenteremo con le smorfie e i cuoricini (facendo salire le royalties).



Ovvero: chi ha proposto il tema su Serafino Gubbio credo abbia perso una splendida occasione per far riflettere su realtà e coscienza nel nostro immaginario quotidiano, grazie a un’opera decisamente più attuale ed anticipatrice rispetto all’altro brano “Profili, selfie e blog”, che risale all’arcaico 2014 e descrive una realtà dell’universo virtuale che al diciannovenne di oggi può sembrare aliena come un film muto.

La balbuzie e l’afasia

Da qui mi viene una chiave di lettura per questo esame, che pare non ci sia speranza di abolire una volta per tutte: “la balbuzie intellettuale e l’afasia”, che il Gulliver di Guccini e Alloisio sentiva nelle domande dei suoi interlocutori, incapaci di intuire i diversi livelli della realtà.

Ancora una volta, e credo non solo a me, balbuzie intellettuale ed afasia sono venute in mente leggendo o ascoltando molti interventi in cui il candidato cercava di ricostruire contenuti e nessi logici che, per l’esaminatore adulto e incancrenito nel proprio ruolo, sono quasi luoghi comuni, ma che per lui o lei sembrano venire da un’altra dimensione – da un altro film, direbbe Gubbio. Su queste colonne ho scritto più volte a proposito del rito dell’Esame di Stato, quindi per non ripetermi vorrei analizzare alcuni punti critici che ho proposto nelle mie note finali come presidente (destinate a perdersi più di un romanzo minore di cent’anni fa) e altri che vedo emergere nei commenti usciti qui di recente.

Primo problema, la paginetta con lo spunto da cui deve partire il colloquio. Confidando che non sia in qualche modo “telefonata”, deve essere facilmente e rapidamente interpretabile, abbastanza generica per poterla collegare a più materie possibili. Un quadro celebre, un brano risaputo, la foto di qualche poeta o profeta facilmente riconoscibile. Che sembra come chiedere a Miss Italia se davvero non vuol dirci qualcosa sulla pace nel mondo, eppure…

Oltre ai casi reali ognuno di noi ha svolto prove simulate nelle proprie classi, e spesso ci si è sentiti sconcertati da come percorsi appena più impegnativi, proposti a candidati non certo disastrati, non siano stati minimamente compresi. Sarà il poco tempo, quella tensione cui ci costringe la ritualità, o chissà cosa. Di nuovo mi astengo dal citare la dozzina di argomenti che ho sentito rimasticare di continuo, con allegato corredo di banalità o strafalcioni, perché sono sicuro che la stessa cosa potrebbe dirla chi ha esaminato i miei o buona parte di tutti gli altri studenti.

No, quella dello spunto interdisciplinare pareva una buona idea la prima volta – quando almeno c’era la bizzarria delle tre buste fra cui sorteggiare – ma proprio non funziona. Via, afuera: riposi in pace insieme alla terza prova.

Potrebbe invece funzionare l’ultima proposta dei tempi di pandemia, nel 2021: rendere centrale nell’esame qualcosa che abbia richiesto allo studente un lavoro autonomo, interdisciplinare, elaborato per un tempo sufficiente (oh, toh, ma non somiglia molto al “capolavoro”?). In questo caso sì il candidato può mostrare, discutere, difendere qualcosa che l’abbia realmente impegnato e in cui creda. Ne avevo parlato su queste colonne e continuo a pensare che tra tutte le idee che possono dar senso all’inutile liturgia sia stata di gran lunga la migliore.

Poi, la commissione di tre interni, tre esterni, e un presidente impegnato soprattutto a sventare i possibili ricorsi.

“Lettera firmata” deprecava qui, qualche giorno fa, che 3+1 esterni siano chiamati a valutare le virtù di quei candidati ignoti ed alieni che, per gli interni, sono invece piezz’e core. Con tutto il rispetto per le sue posizioni, sono convinto che per dare un minimo di senso a questo rito si debba fare esattamente il contrario. Tre componenti interni sono già troppi per non condizionare l’andamento dell’esame. Se il vero problema è che gli esterni costano troppo, aboliamo tutto così risparmiamo ancora di più.

L’olimpico distacco?

Per esempio: la correzione degli scritti per aree disciplinari distinte vuol dire tre esaminatori di qua e tre di là, con il presidente che – se ha la fortuna di non essere abilitato su nessuna delle due discipline – supervisiona con distacco. Stante il diverso livello di conoscenza della materia e delle persone che hanno i commissari, diventa difficile persino leggere e sedare quelle simpatie o, peggio, quelle antipatie verso i singoli che invece una commissione olimpicamente imparziale dovrebbe contenere e respingere. Ammesso ovviamente che sia gli esterni sia gli interni abbiano competenze egualmente buone, inclusi i sostituti raccogliticci dell’ultimo minuto: ma questo è certo per dogma di fede, uno vale uno. E non mi sto riferendo alla contestazione delle ragazze veneziane, di cui nel merito non so nulla.

Poi, la lievitazione dei crediti. Pochi anni fa, la battuta “ora che ha firmato la presenza, congratulazioni per il diploma, ci vogliamo anche giocare il voto?” era così rara da non sembrare noiosa. Ma da quando il credito arriva a 40 punti capita di continuo, è proprio difficile entrare all’orale al di sotto della cinquantina. Se ufficiosamente la sufficienza vale 12, quale commissione negherà ad un orale penoso almeno quella decina di punti che la protegga dal ricorso? Se hai consegnato i due scritti senza lasciare il foglio in bianco, il diploma è praticamente sicuro; se non punti ai livelli altissimi, un voto vale l’altro. La provocazione del gran rifiuto, al limite, sorprende per la sua rarità, pensando a come potrebbe essere usata per guadagnare un po’ di pubblicità sui famosi social.

Vogliamo infierire parlando di CLIL? Di chi fra noi si dispera per non riuscire a farlo al meglio, dato che troppi studenti non sanno dire “the cat is on the table”, o di chi si inventa dei “moduli” episodici per dire che almeno ci ha provato, mentre ci sono scuole che placidamente neanche provano a farlo perché non hanno docenti qualificati? Rendiamo obbligatoria la presenza in commissione del docente CLIL (e paghiamolo di più), o se no lasciamo perdere, e pazienza se l’UE si incavola.

Oppure – ah, non l’ho detto? – aboliamo del tutto l’esame.

Ma l’esame di Stato ha evidentemente un ruolo di distrattore sociale a cui non si vuole rinunciare, dato che i modi per abolirlo pur rispettando il dettato dell’art.33 ci sarebbero. E quindi ritorniamo in quell’afasia che alla fine sconvolge il troppo coscienzioso Serafino Gubbio. “All the rest is silence”.

 

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