La telecamera/ accesa sul portatile già porta/ l’occhio nelle camere/ scontornate dei ragazzi, negli sfondi/ digitali di galassie sprofondano/ i peluches i poster stanati nel baricentro/ degli equilibri domestici, una frode/ ci espone in ventotto posti/ dalle nostre postazioni e ci fa/ spietatamente soli./

Non è mica stata una passeggiata quella della Dad nel primo lockdown. E non lo è stata nemmeno dopo, quando – dice ancora la poetessa Alice Serrao nella sua raccolta Linea di cattedra (Samuele Editore, 2021): “Sono miei come fioretti dopo la gelata/ titubanti nel cinquanta per cento/del sole in presenza. La poesia si chiude con la domanda di uno studente: “Possiamo ancora/ diventare grandi a qualcosa?”. “Non abbiate paura”, risponde la prof. 



Non abbiate paura, lo può dire chi ha condiviso la solitudine e lo smarrimento, chi ha sentito innanzitutto per sé l’inadeguatezza di un fare scuola improvvisato ed estraniante. E proprio per questo ha saputo poi reinventarsi, rimettendo in gioco le proprie conoscenze e competenze, rimodulando continuamente la propria proposta didattica, direbbero quelli bravi. 



Non abbiate paura non equivale a dire: andrà tutto bene. Non abbiate paura è un invito a tenersi dentro quel desiderio di diventare grandi di cui parla la poesia, quella voglia di non essere “trattati come scemi che bisogna sempre non offendere, non ferire,/ non toccare come dice Pasolini. 

Non abbiate paura è una frase che chi fa la scuola – cioè chi vive la relazione economica, cioè vantaggiosa dell’apprendimento e dell’insegnamento – deve sapere dire, deve potere dire. Di fronte a qualsiasi turbamento, davanti a qualsiasi ostacolo, a qualsiasi evento meraviglioso o avverso che possa accadere. 



Figuriamoci se non può e non deve essere detta di fronte a un esame. Perché finalmente ci sono gli esami, per la terza media e per la maturità. Non che siano una cosa speciale: nella scuola, come nella vita, ogni giorno viene chiesto qualcosa. In fondo crescere vuole dire rispondere a una richiesta, a continue richieste. Ecco perché c’è poco da stare allegri quando da qualche parte si alzano le voci degli studenti non per rispondere a una richiesta, ma a chiedere che non venga fatta loro nessuna richiesta. 

E ancor di più occorre forse preoccuparsi quando gli stessi insegnanti – e persino qualche preside – tirano su barricate per dire che non si è pronti a tornare alla normalità. A quale normalità si riferiscono? Certo persino il ministro, annunciando il ripristino degli esami, incappa nello stesso errore, parlando di un lento ritorno alla normalità: come sempre, nella scuola, l’idea è che le cose comincino dalla fine. Si pensa che sistemando la valutazione, si riorganizzi anche la programmazione; cambiando gli esami, si rivoluzionino metodi e contenuti. 

A questo, purtroppo, chi vive nella scuola è abituato. Ma insegnanti e presidi dovrebbero dire in coro ai loro alunni, come fa la poetessa: Non abbiate paura! Non abbiate paura, dovrebbero dire, ci siamo qua noi che abbiamo sofferto con voi. Che lentamente, però, proprio perché crescere significa essere messi di fronte a delle responsabilità, abbiamo riscritto la scuola con voi.

Cosa c’è di diverso in un esame, rispetto a quello che ci siamo chiesti e dati in tre anni così? Insegnanti e presidi dovrebbero essere i primi a rallegrarsi per un esame che potranno modulare secondo quanto realmente è stato fatto e nella costruzione del quale non si potrà fare a meno di fare tesoro delle cose preziose e delle innegabili mancanze che si sono sperimentate. Non che non esistano motivi di critica rispetto a quanto è stato proposto dal ministero – in generale poi sugli esami ormai si stende lunga l’ombra di un sentire che sempre più prende piede e che li ritiene inutili e obsoleti – ma credo che anche così, con le loro pecche e i loro difetti, vadano salutati come un’occasione per riaffermare la libertà e la responsabilità di chi fa la scuola. Da studente e da insegnante. 

Certo, a patto che questa libertà e responsabilità siano state esercitate prima, siano entrate in circolo in questi anni di assenze e di magoni, siano diventate almeno un po’ il sangue che scorreva nelle giornate in presenza e in video. 

Tornando a Pasolini, perché dobbiamo trattare gli studenti come scemi? E pensare agli insegnanti come a degli impiegati o a degli automi? La scuola può chiedere, se la scuola ha dato. E uno studente può dare, se innanzitutto la scuola ha chiesto. E non c’è motivo di dubitare che sia stato così. O no, professor Giannelli?

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