Quando inizio gli esami di Stato, mai uguali all’anno precedente, mi viene da condividere lamentele e obiezioni di tutti i miei colleghi. Ancora con questo rito? Burocratico, costoso, inutile, tanto alla fine sono tutti promossi… Anche quest’anno poi senza prove scritte, quando le migliorate condizioni sanitarie ne avrebbero probabilmente consentito lo svolgimento. A che vale un esame conclusivo al liceo classico senza traduzione dal latino o dal greco? O senza prova scritta di matematica al liceo scientifico? Si aggiunga che il ministro dell’Istruzione ha ventilato la possibilità di mantenere questa soluzione anche per il prossimo anno. “Ho avuto riscontri positivi dagli studenti”, ha affermato Bianchi, lasciando tutti allibiti. Sarebbe come se un datore di lavoro chiedesse ai suoi dipendenti: volete tre mesi di ferie pagate?
Di fronte a tale prospettiva, c’è chi sostiene la necessità di riformare l’esame sdoppiandolo, come ha argomentato su queste pagine Luisa Ribolzi: un primo stadio uguale per tutti, il secondo specializzato in relazione alla prosecuzione degli studi; c’è anche chi, più tranchant, vorrebbe semplicemente abolirlo. Quindi l’inizio degli esami è un po’ fantozziano per tutti e ci apprestiamo a subire ancora.
Poi entrano i ragazzi e le ragazze, ed è come se la realtà prendesse il sopravvento. Eccoli qui, somiglianti ai loro fratelli maggiori, se non ai loro padri: emozioni, timori, trasalimenti, voglia di finire tutto e di andare al mare, ma anche di mettersi in gioco, di conoscere di più un pezzettino di loro stessi. Eccoli districarsi tra elaborati, testi di italiano, “materiali proposti dalla commissione”, educazione civica, Pcto: tentare collegamenti improbabili tra postmodernità, Montale, attentato di Sarajevo, deriva dei continenti, Statuto Albertino e Costituzione. Qualcuno è più impacciato, un altro più brillante: chi delude e va sotto la media dell’anno, chi inaspettatamente la migliora.
Anche questo esame, così rabberciato, a conclusione di un anno complicato e drammatico, va preso sul serio, perché i ragazzi lo prendono sul serio, come una circostanza importante da vivere al massimo: è la loro carta, il loro esame, montalianamente la loro occasione, ciò che accade davanti a loro e per loro, opportunità, kairos.
Quando li accompagno verso l’uscita, ci scambiamo un ultimo fuggevole sguardo. So che molti di loro non li vedrò più; con altri si stabilirà una frequentazione quasi amichevole. Alcuni si girano improvvisamente, dopo aver imboccato il corridoio, a volte trattenendo a stento un’emozione: “Prof!”, sospirano e in quell’esclamazione c’è tutto quello che non si riesce a dire, meravigliosamente incompiuto.
Torna alla mente la frase di Goethe: “In ogni separazione vi è sempre un germe della follia”. Bisognerebbe non separarsi mai, oppure trovare una formula di rito che ci liberi dall’ansia del cercare la parola che non si trova. Ma viene il sospetto che la soluzione più geniale sia sempre quella dantesca nel Paradiso terrestre. Trafitto dalla vista di Beatrice, Dante si gira verso Virgilio per cercare conforto, come “il fantolin corre alla mamma”. Ma Virgilio, il “dolcissimo padre”, sparisce improvvisamente. Il processo educativo si è compiuto: il figlio ha il padre dentro di sé.
Anche quest’anno, il criticatissimo esame di Stato si chiude con il groppo in gola.
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