Nonostante insegni nella scuola secondaria di primo grado, da molti anni riconosco al momento dell’esame conclusivo un valore significativo. È il primo vero “scoglio” che i ragazzi e le ragazze si trovano ad affrontare, un banco di prova importante per capire aspetti di sé e della propria crescita. Cerco di presentarlo non come un ostacolo ma come un’occasione per dimostrare ciò che si è appreso e come si sono affinati i propri strumenti del conoscere. L’articolazione attuale prevede tre prove scritte: italiano, matematica e lingue straniere. Le tipologie sono stabilite da una circolare ministeriale, ma la stesura delle prove avviene ad opera dei docenti di materia, i quali modulano anche le griglie di correzione (compresi gli alunni con diagnosi e Dsa).



La prova orale può avere la forma di un colloquio multidisciplinare dove al candidato, che partendo da un argomento a scelta dimostra la propria padronanza nell’esporre contenuti e approfondimenti, vengono poi proposte dai vari docenti domande sul programma dell’ultimo anno. In altri casi viene esposta la cosiddetta “tesina”, un elaborato che collega argomenti delle varie discipline accomunate da un titolo esplicativo, spesso presentato attraverso un power point. È evidente che optare per il colloquio assume un certo livello di complessità e permette di rilevare molteplici abilità del candidato che si trova a gestire tanti argomenti e dimostrare una prontezza di risposta sostenuta da uno studio costante ed efficace.



Se alle prove scritte disciplinari i discenti sono abituati da tutto il triennio, l’orale crea preoccupazione ed ansia: le interrogazioni non sono certo una novità, ma trovarsi dinanzi tutti i docenti ed esporre su ciascuna disciplina di studio non è proprio l’abitudine. È opportuno accompagnare gli studenti a questo momento, motivandoli e creando relazioni positive senza metterli volutamente in difficoltà ma lasciando il più possibile loro la parola per concedere di esprimersi con una certa serenità. Il compito più complesso per i docenti non è tanto quello di formulare il voto finale, che viene calcolato mediando il voto di ammissione (risultato della media del triennio) con quello delle prove scritte e la prova orale, ma la compilazione del certificato delle competenze di ciascun alunno, che generalmente avviene in sede di scrutinio.



Ogni scuola ha un modello proprio in cui compaiono le otto competenze in chiave europea (approvate nel 2018 nella forma attuale). Alcune sono prettamente disciplinari e scolastiche (lingua italiana, lingue straniere, matematica e scientifica, informatica, consapevolezza culturale sottoarticolata in religione e tradizioni, geografia, motoria e sportiva, artistica e musicale), altre sono invece generali e trasversali vale a dire “imparare ad imparare”, spirito d’iniziativa e competenze civiche e di cittadinanza.

Come vengono valutate? Si stabiliscono dei livelli di acquisizione, in genere tre: iniziale, intermedio e avanzato. Non sempre corrispondono ai voti numerici delle discipline, in quanto le competenze non si riconoscono attraverso le verifiche scritte e orali (ovvero i compiti in classe che siano essi strutturati, a domande aperte o temi) ma tramite delle “prove” che possono essere multidisciplinari e se ne dà valutazione attraverso una rubrica strutturata. Si tratta di attività in cui si possono riconoscere i livelli di collaborazione, problem solving, accuratezza dell’elaborato o della prestazione finale o altre voci ritenute qualificanti.

Il fatto è però che quando viene compilato il certificato delle competenze sono davvero pochi i professori che hanno seguito gli alunni durante tutto il triennio e, non essendo le scuole dotate al momento di un archivio di rubriche che renda memoria dei progressi del singolo, succede che si valutino le competenze “a senso”, cioè dopo una breve consultazione e basandosi su alcuni eventi verificatisi nella vita scolastica e ricordati in sede di compilazione. E pensare che è proprio questo il certificato che accompagna l’ingresso dei ragazzi alla scuola di grado superiore! Ogni volta che sono chiamata a compilare questo documento mi trovo a riconoscere che non esiste un corredo di informazioni compilate in itinere che tenga conto del reale percorso formativo dei ragazzi e che renderebbe una “immagine completa” su cui fare affidamento.

L’idea circolata molti anni fa del portfolio (riforma Moratti) della vita scolastica dell’alunno forse non era poi così insensata; fu però molto osteggiata, sia per la mancanza di criteri appropriati e condivisi, sia per il rifiuto da parte della maggior parte dei docenti di “incasellare” i discenti in livelli al di là delle valutazioni disciplinari. Forse era prematuro, visto che ci si stava ancora avviando verso una scuola basata sulla centralità della persona (come ricordano le Indicazioni nazionali) che prevede che “lo studente sia posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi (…) e che si realizzino progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato”.

Adesso ritengo sia il caso di rielaborare un simile strumento che permetta di registrare i cambiamenti e la maturazione delle competenze in momenti significativi della vita scolastica, come per esempio alla fine della primaria (da anni senza esame e con poche informazioni di passaggio) e al termine del biennio della secondaria di secondo grado. Sembra che l’attuale ministro sia dell’avviso di riproporre una sorta di curriculum dello studente di questo tipo e che ne stia valutando la fattibilità: sarebbe opportuno che consultasse chi lavora con i ragazzi e ascoltasse qualche suggerimento proveniente dal campo.

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