Da una parte “c’è lo sguardo dell’adulto, fisso su ciò che insegna, su come lo insegna, su come il ragazzo apprende, sulle domande che pone o che magari non esplicita”. E, dall’altra, “c’è lo sguardo del ragazzo, che va continuamente rialzato. È adulto proprio chi riesce a rialzare questo sguardo, a far balenare nuove mete e nuovi orizzonti, a far percepire la domanda infinita che alberga nel suo cuore: domanda di senso, di bellezza, di giustizia”.



Per Raffaela Paggi, da settembre rettore della Fondazione Grossman, dopo anni di insegnamento di lettere e già preside delle scuole medie della Fondazione Sacro Cuore, l’educazione è una questione di rapporto, di sguardo. Poi, viene tutto il resto. E questa filosofia – “Ridestare l’umano continuamente è il compito numero uno dell’educatore” – è alla base dell’esperienza della Fondazione Vasilij Grossman (1.020 iscrizioni, 100 insegnanti e più di 50 aule e laboratori), che da tempo a Milano svolge la sua opera educativa attraverso i quattro livelli di istruzione: Infanzia-bilingue (in cui il bambino è aiutato a scoprire se stesso nella sua unicità e irripetibilità), Primaria (l’essenzialità della proposta educativa tende a favorire la crescita globale dell’alunno), Secondaria di I grado (dove lo studente diventa sempre più protagonista, esprimendo il desiderio di appropriarsi in modo personale della realtà, imparando un metodo) fino ai licei Scientifico e Classico (da due anni primo nella classifica di Eduscopio come miglior liceo classico di Milano, quest’anno apre una nuova classe prima).



Con il rettore Paggi, impegnato in questi giorni anche nella raccolta delle nuove iscrizioni all’anno scolastico 2020-2021, abbiamo voluto approfondire che cosa vuol dire oggi educare, come si possono appassionare i ragazzi allo studio, come si tiene viva negli adulti la carica educativa e cosa significa mettere in piedi, proporre e far vivere una “bella” scuola.

La prima domanda può sembrare scontata, ma non lo è, vista l’attuale emergenza educativa di cui si parla. Cosa vuol dire oggi educare?

La crisi dell’educazione coinvolge innanzitutto gli adulti, prima ancora che i giovani. Ma oggi, come nel passato, educare significa favorire la possibilità che un ragazzo possa formarsi con gli strumenti della ragione, dell’affezione e della libertà per poter affrontare la realtà carico di certezza e con la possibilità di intervenire in modo costruttivo e creativo. Il problema è che oggi, essendo in crisi il mondo adulto, l’educazione non può che subire ripercussioni notevoli.



In effetti l’atto dell’imparare non implica tanto una costrizione formale, quanto un rapporto vivo tra qualcuno che ha qualcosa da insegnare e qualcuno che vuole appunto impararlo. Per educare deve dunque scoccare questa scintilla?

Più ancora che la parola scintilla, io sottolineerei la parola rapporto. L’educazione in campo scolastico non può prescindere da un rapporto che sia ben impostato.

In che senso?

Un rapporto in cui l’adulto sia capace di intercettare le istanze del ragazzo e il ragazzo sia disponibile a seguire i passi di un maestro, a verificarli, a interloquire con lui. Il punto chiave dell’educazione sta tutto nel rapporto tra due persone, tra due libertà, tra due responsabilità, che ha come termine di paragone un rapporto con la realtà aperto, dialogico. Un compito che tocca innanzitutto all’adulto. Se non è capace di guardare, di affermare l’esistenza della realtà stessa in tutta la sua pienezza e bellezza, con una certezza portatrice di un significato, sarà molto dura riuscire a convincere e avvincere un ragazzo nel lavoro – che poi a scuola si traduce sempre in relazione a contenuti e metodi molto specifici e chiede una paziente obbedienza – alla ricerca del significato della realtà. Ci vuole un giudizio previo: la certezza dell’adulto sul fatto che la realtà c’è, è conoscibile e ha senso.

L’educazione è anche una questione di sguardo?

Assolutamente sì. C’è lo sguardo dell’adulto fisso su ciò che insegna, su come lo insegna, su come il ragazzo apprende, sulle domande che pone o che magari non esplicita. E c’è lo sguardo del ragazzo, che va continuamente rialzato. Perché lo sguardo di un ragazzo, in particolare nel passaggio dall’infanzia alla gioventù, tende a rinchiudersi su se stesso, ad abbassarsi. Ma è adulto proprio chi riesce a rialzare questo sguardo, a far balenare nuove mete e nuovi orizzonti, a far percepire la domanda infinita che alberga nel suo cuore: di senso, di bellezza, di giustizia. Ridestare l’umano, continuamente, è il compito numero uno dell’educatore.

Oggi però tanti si lamentano del fatto che i ragazzi sono apatici, disattenti, poco avvezzi a creare relazioni, sempre curvi sugli smartphone, soggiogati dai social, dove cercano amicizie e le risposte alle loro domande, dalle più futili alle più profonde. Qualcuno li ha definiti dei piccoli zombie. Sono proprio così? E come si possono avvincere, appassionare, ridestare?

È un ritratto a tinte molto fosche, e il rischio di un’apatia generalizzata esiste, ma questa apatia è ciò a cui li ha condotti la società adulta, spingendoli solo a un desiderio di performance, di successo, a una visione utilitaristica della vita. Ma le cose materiali non soddisfano e a fronte di un mondo adulto che sembra dire a ciascuno di loro “Devi raggiungere il successo, devi fare i soldi, devi essere in un certo modo perché questo ti garantirà la felicità”, un ragazzo capisce presto che è un inganno. S’accorge che dentro quella realtà la risposta al suo bisogno di infinito non c’è e questo genera apatia.

Si può scalfire questa apatia?

Vivo da anni in mezzo ai ragazzi ed effettivamente noto che, lasciati a loro stessi, in mano ai social e all’invadenza e onnipotenza della rete, cadono in una forma di disinteresse. Basti pensare al fenomeno degli Hikikomori in Giappone, centinaia di migliaia di ragazzi che si chiudono in camera senza vedere nessuno e senza far nulla se non stare davanti al computer. Tuttavia, nei ragazzi la capacità di recupero di una visione ideale è pressoché immediata quando incontrano persone, testi, situazioni, eventi, possibilità di espressione all’altezza del loro desiderio. Poi, ovviamente, vanno sostenuti nella libertà di aderire, ma non è vero che sono come “morti viventi”.

Per gli adulti è una bella responsabilità: non possono e non debbono mai abbassare la guardia. Eppure la cronaca riporta spesso casi o racconti di insegnanti disillusi e demotivati. Come si fa a tenere sempre desta la carica educativa capace di far rialzare lo sguardo agli studenti?

Bisogna, innanzitutto, richiamare il docente all’origine della scelta che lo ha portato nel mondo della scuola. Ciascuno di noi è entrato nella scuola per un grande amore e una grande gratitudine. Per me, ad esempio, l’incontro con la letteratura e con la linguistica è stato talmente gratificante che desideravo riproporlo ad altri. Un docente va costantemente aiutato a recuperare quel punto, a ritrovare quella passione originaria.

Può bastare, dopo tanti anni di lavoro, magari in contesti difficili?

Ecco il secondo punto che può tenere desta la carica educativa: serve una continua, appassionata condivisione tra adulti del comune compito educativo. Da soli non ce la si può fare: se uno si concepisce da solo, dovendo combattere ogni giorno contro l’invadenza di una mentalità che impoverisce e anestetizza l’io e il suo desiderio o dovendo affrontare problemi socialmente sempre più diffusi, dalle dipendenze alle famiglie sfasciate e al bullismo, è chiaro che si tende a tirarsi indietro, a demotivarsi, a deprimersi. Invece le scuole, le comunità educative più capaci di portare avanti l’educazione dei ragazzi sono quelle i cui adulti vivono una reale compagnia.

In questa sfida giocano un ruolo di primo piano anche i genitori? E come si costruisce un buon dialogo tra scuola e genitori?

Io stessa ho vissuto una “conversione” nel mio rapporto con le famiglie. All’inizio, da giovane insegnante, consideravo ogni loro intervento, ogni loro osservazione con fastidio, come fosse un ostacolo al mio lavoro.

E poi cosa è successo?

Col tempo ho iniziato a guardare ogni loro osservazione come possibilità di miglioramento della mia professionalità e del mio rapporto con gli studenti. Il che non significa dar necessariamente sempre ragione ai genitori, ma prendere sul serio le loro obiezioni, osservazioni, critiche. Il primo passo è stato riconoscere che, a prescindere da ogni analisi, in quella osservazione c’era del vero, e quindi ho iniziato ad andare ogni volta a fondo, instaurando un dialogo approfondito con loro. La realtà, da quanti più punti di vista viene guardata, tanto meglio la si conosce. E un ragazzo è una realtà così poliedrica, così difficile da scrutare, che più lo si osserva da più punti di vista, più è possibile aiutarlo a conoscersi e a trovare la strada giusta per maturare. Dunque, il punto di partenza per un buon dialogo tra scuola e genitori è la stima reciproca fra educatori, giocata sul compito che ciascuno ha nella vita: mettersi al servizio dei ragazzi, sacrificarsi per i ragazzi. Così non ci si sovrappone e nessuno si sostituisce all’altro, ma ci si aiuta a vicenda.

I ragazzi sono poliedrici, è vero, ma è altrettanto vero che la scuola di oggi offre loro un nozionismo forse troppo poliedrico, troppo segmentato e astratto. Non dovrebbe la scuola offrire loro un’ipotesi unitaria, un punto di sintesi?

Per tanti anni ho lavorato nella mia didattica sul concetto di essenzialità. Credo che sia urgentissimo e fondamentale, anche per il nuovo tipo di società che si va affermando, così veloce nei cambiamenti e così imprevedibile nelle sue evoluzioni, che ogni docente si interroghi su quali siano gli essenziali della sua disciplina.

Cosa intende per essenziali?

Le poche chiavi d’accesso – di contenuto, metodo, linguaggio – da fornire allo studente affinché entri nella logica della sua materia, e attraverso di essa conosca la realtà in modo sempre più autonomo. Che non vuol dire limitarsi quantitativamente nei contenuti, ma trovare e proporre quei punti su cui si può sempre tornare e approfondire in un andamento che potremmo definire a spirale. È questo “il” lavoro attuale cui è chiamata la scuola.

Il rischio che altrimenti si corre?

Insegnare per accumulo, affastellando nozioni su nozioni, ma che alla fine non servono a nulla se non si ha la possibilità di capire e connettere le cose, i concetti, le procedure che servono davvero per entrare nella matematica, nella fisica, nella letteratura, in qualsiasi disciplina. E quindi nella realtà.

È per questo motivo che lo slogan delle vostre scuole è “Quando la ragione si fa scuola”? Come si traduce in concreto?

Vuol dire che noi non crediamo in una ragione disincarnata, che sia solo espressione di un presuntuoso raziocinio. Crediamo fortemente nel metodo dell’esperienza: la ragione si compie, diventa carne, laddove accade una reale esperienza di conoscenza, laddove c’è la possibilità di capire le cose, i testi, i concetti, e di giudicarli, paragonandoli con le proprie domande, le proprie certezze. L’esperienza detta un metodo per capire e giudicare, rispettoso del tempo necessario a far riflettere i ragazzi su quanto imparano nelle varie discipline e nella vita scolastica. Solo ciò che viene conquistato attraverso l’esperienza diventa consapevole, proprio, altrimenti non scatta alcuna personalizzazione, alcuna maturazione.

Sono questi i cardini di una “bella” scuola?

A rendere bella la nostra scuola è innanzitutto la presenza di adulti capaci di sacrificarsi per i ragazzi. E quando dico sacrificarsi, intendo il fatto che vedo docenti disposti a mettere i ragazzi prima di loro stessi, a considerare la loro crescita come criterio di giudizio per le scelte didattiche o organizzative. Lo scopo di una scuola non è la perfetta sistemazione dell’organico o dell’orario, ma la crescita della conoscenza e dell’autocoscienza di ogni singolo ragazzo.

Non conta anche la buona organizzazione didattica?

Certo, perché è condizione per lavorare bene. Ma direi piuttosto che conta la cura del particolare: dalla pulizia degli ambienti al rispetto degli orari, fino alla scelta dei contenuti da proporre. Insomma, che tutto parli, anche gli aspetti minuscoli, di un ideale grande, di una bellezza capace di mettere in moto il cuore della persona, perché dentro un disordine o una trascuratezza anche l’io finisce per trascurarsi.

Immaginiamo che, qui adesso, si presenti un genitore con il desiderio di iscrivere suo figlio alla vostra scuola. Un buon motivo per convincerlo?

Lo farei parlare con i ragazzi stessi, che sono i testimoni più credibili. L’ho sperimentato anche nell’ultimo Open day: più ancora che le mostre in sé e gli eventi organizzati, il vero evento era vedere e toccare con mano la passione e l’entusiasmo di comunicare la bellezza che si stava vivendo da parte dei ragazzi stessi. È la cartina di tornasole più veritiera di quella che è la proposta educativa delle nostre scuole, dall’infanzia ai licei. Al di là di una solida istruzione, che è già un aspetto molto importante, vorrei proporre a un nuovo genitore la possibilità di un cammino della ragione, della libertà e dell’affezione che un ragazzo qui da noi può intraprendere a 360 gradi.

(Marco Biscella)