Si è chiuso un anno in cui il ministero si è concentrato su numerose procedure di arruolamento, proseguono le immissioni in ruolo di docenti (sono stati autorizzati 45.124 immissioni in ruolo), è stata avviata la fase intermedia del concorso ordinario per dirigenti indetto nel 2023 e si è concluso, dopo un lungo contenzioso, quello indetto nel 2017, con presa di servizio di nuovi dirigenti.
Probabilmente nei prossimi anni la scuola di Stato godrà pertanto di una stabilizzazione del personale.
Gli ingressi compenseranno gli altrettanto numerosi pensionamenti, per di più in un contesto di grave crisi demografica che consentirà di abbassare in modo significativo il rapporto insegnanti/studenti. Apparentemente quindi un deciso miglioramento.
Diverso il discorso per le scuole non statali che, a fronte di nuovi ingressi nel sistema di prestigiose (o meno prestigiose) scuole molto elitarie, prevalentemente bilingui, vedono la significativa scomparsa di molti istituti di tradizione, prevalentemente cattolici, una crisi ben descritta da Roberto Pasolini su queste pagine.
Sono ancora numerose le esperienze capaci di costruire occasioni di apprendimento e di relazione significative, che ci confermano nella certezza che quando un bambino o un adolescente incontra un adulto interessante possono accadere incontri meravigliosi, talora capaci di generare un cambiamento non solo negli studenti, ma anche negli adulti coinvolti. Si pensi alle Sacre rappresentazioni, ai concerti, alle drammatizzazioni di cui sono stati costellati i giorni precedenti il Natale, non solo nelle scuole di ispirazione cristiana ma anche in molte scuole statali. Si pensi alla bellezza di alcuni open day in cui docenti e studenti hanno reso manifesto il progetto formativo in atto.
Siamo stati spettatori di una generosità, una creatività davvero straordinarie, momenti in cui bambini e adolescenti sollecitati dall’intelligenza e dalla passione dei docenti sono stati capaci di rappresentare testi teatrali, musiche, danze, espressione della grande tradizione culturale, ma anche mostrando di aver acquisito quelle competenze più esperienziali, quelle life skills riconosciute essenziali dalla nuova pedagogia e dalla società complessa in cui i nostri bambini e ragazzi si troveranno a vivere e a lavorare. Anche in tema di inclusione queste esperienze mostrano come ciascun alunno, se messo in condizioni di reale accoglienza, di autentico riconoscimento del proprio valore possa contribuire in maniera costruttiva all’armonia dell’insieme e trovare il proprio posto nel mondo.
Quando invece giudichiamo la scuola nella sua quotidianità sembra che questo orizzonte non sia sperimentabile.
La cronaca offre costantemente (questo fa ancora notizia) continui episodi in cui il conflitto di tutti contro tutti sembra la cifra caratterizzante i rapporti, tensione e aggressività risultano protagoniste in un clima di sfiducia diffusa.
La professione di insegnante risulta sempre meno attraente nelle giovani generazioni e, quel che è più grave, la scuola italiana arretra nei ranking internazionali degli esiti scolastici.
Proviamo a guardare dentro il sistema, forse qualche correzione è possibile individuarla.
A fronte di un enorme numero di nuovi immessi sarà assolutamente necessario creare condizioni nelle scuole per cui questi nuovi docenti siano accompagnati dai docenti più esperti e da dirigenti appassionati, pena l’inefficacia di questo nuovo impegnativo investimento. Il docente efficace deve conoscere molto bene la propria disciplina, saperla comunicare e valutare. Questi sono gli essenziali “ferri del mestiere”. In pochi casi questi obiettivi sono già presenti all’inizio della carriera; nella maggior parte possono essere raffinati attraverso un aggiornamento costante con i colleghi della medesima area disciplinare o del medesimo consiglio di classe. Nemmeno il genio impara più da solo…
Purtroppo questa condivisione è rara, prevale l’isolamento, la sensazione di sconforto, nel peggiore dei casi il burnout e la delusione. Dirigenti illuminati, colti e appassionati (non tecnici o burocrati cavillosi) circondati di quel middle management di cui tante volte si è parlato, ma che ancora stenta ad essere riconosciuto, almeno dal punto di vista economico, possono generare un clima permeabile all’apprendimento, non solo degli studenti, ma anche degli insegnanti.
Si segnala per di più ancora una volta come nota dolente di sistema la scarsità di docenti laureati in discipline scientifiche (matematica e l’area tecnica in particolare), in lingua inglese come prima lingua, l’eccessiva varietà dei piani di studi di neolaureati di area umanistica che, delusi dalla difficoltà di inserimento nell’ambito lavorativo, optano tardivamente per l’insegnamento.
Per molti docenti neo-immessi, che pure abbiano superato i concorsi, i primi anni, la relazione con colleghi esperti, un clima di scuola centrato sulla formazione continua, costituiscono elementi necessari per una crescita professionale coerente al contesto scolastico prescelto. Le vecchie SSIS, i più recenti TFA, hanno cercato di integrare l’accademia con il mestiere di insegnante, ma gli esiti non sono stati sempre soddisfacenti. È un altro discorso che andrebbe approfondito, soprattutto attraverso i confronti internazionali che in molti casi prevedono un orientamento didattico delle facoltà universitarie.
Ogni scuola è un mondo e il mestiere di insegnante è appunto un mestiere, che deve integrarsi nel contesto in cui si esprime: la generalizzazione non è sempre efficace. La teoria di cui spesso è ricco il giovane docente ha assolutamente bisogno di confronti continui con la pratica, con l’esperienza dei colleghi esperti.
Con l’aumento delle diagnosi di disturbi di apprendimento (DSA) anche il tema dell’inclusione andrebbe rivisto, andrebbe ridotta la massa di documenti e invece promosso un modello di integrazione più flessibile e attento alla personalizzazione. Su questa tematica in particolare, così come esistono modelli straordinariamente virtuosi (che andrebbero meglio conosciuti e diffusi) si vanno moltiplicando conflitti, tensioni, contenziosi che, a danno dello studente, esasperano gli animi.
I fondi del PNRR hanno permesso di retribuire in modo significativo i docenti che si sono resi disponibili a svolgere azioni di integrazione della didattica ordinaria, eppure in molti istituti scolastici il dirigente e i delegati sindacali trascorrono ancora ore ed ore per definire la distribuzione dei fondi relativi al miglioramento dell’offerta formativa, che nella maggior parte dei casi costituiscono risorse davvero poco significative.
Sarebbe davvero ora che anche la parte sindacale, nella scuola di Stato, prendesse consapevolezza dell’emergenza educativa e rinunciasse a ruoli e a modelli di gestione della contrattazione davvero ormai obsoleti.
Il confronto fra scuole italiane, ma anche l’opportunità degli scambi con l’estero, possono rappresentare una grande occasione di superare certe impasse e di sostituire al conflitto la relazione costruttiva.
La complessità del mondo attuale, le esigenze relative alla sicurezza degli istituti scolastici, alla protezione dei dati, alla gestione del personale, tutti aspetti ormai in carico alle singole scuole, non possono né devono sovrapporsi alla centralità della dimensione culturale e formativa connaturata all’istituzione scolastica.
C’è nella scuola di Stato un’enorme massa di pratiche di natura burocratica che avrebbe bisogno non solo di più personale, ma di personale altamente qualificato. Si auspica che le prossime tranches di fondi PNRR siano utilizzati anche per sostenere il personale amministrativo, a cui delegare la gestione delle procedure.
Si spera altresì che si arresti la scelta scellerata di accorpare gli istituti, scelta che se ha avuto ricadute positive in termini economici, ha generato ulteriore caos e tensione negli istituti.
Solo così le energie di docenti e dirigenti potranno di nuovo concentrarsi sulla ricerca e pratica didattica, che deve continuare a costituire il core business della scuola del nostro Paese. La tragica alternativa è che le menti più brillanti dei giovani orientati all’insegnamento scelgano altre strade e i dirigenti scolastici si trovino ad anteporre sempre più compiti burocratici a una leadership culturale e formativa che abbia al centro la persona dello studente, in una forte tensione culturale e formativa, in alleanza e non in perenne conflitto con i genitori e in un rapporto fecondo con il territorio in cui il singolo istituto è collocato.
L’auspicio è che il 2025 produca in tutti i soggetti coinvolti questa consapevolezza. La grande tradizione didattica e pedagogica italiana, rinnovata dalle nuove risorse umane, strumentali e tecnologiche, può ripartire solo se recupera la passione alla dimensione culturale ed educativa come centrale per il singolo e le comunità.
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