La guerra comincia sempre dalle parole. Dal rispetto della verità che hanno dentro. O dalla sua manipolazione o mistificazione. Perché le cose, in fondo, non sono altro che le parole con cui le nominiamo. E in questi giorni in cui la politica ha dovuto rendere conto in parole di ciò che intende fare, ce ne siamo resi ampiamente conto. Ancor prima che il discorso del nuovo Presidente del Consiglio fosse stato terminato, apparivano in rete e in video commenti e valutazioni. Hanno cominciato a scrivere il nuovo Indice, la raccolta delle parole che ha detto e non avrebbe dovuto dire. O delle parole che non ha detto e avrebbe dovuto invece dire.
In particolare a proposito dei passaggi, fatti o taciuti, sulla scuola: potremmo già raccogliere in volume gli interventi sul termine merito – inserito a nominare, cioè a identificare il nuovo ministero dell’Istruzione – che si sono registrati su riviste specializzate, blog, social. O anche sulla sparizione dell’aggettivo pubblica che accompagnava da sempre l’identificazione dello stesso ministero. E negli stessi giorni apparivano manichini appesi a un ponte, striscioni davanti alla sede di un’università romana che invitava a tenere fuori i fascisti dall’università. Parole a cui hanno fatto seguito risse e tafferugli con la polizia, a cui hanno fatto seguito altre parole – mica di un giovane studente, ma di Beatrice Bompiani, una editrice e parlamentare italiana dentro un frequentato talk show televisivo – in cui si metteva in guardia da una deriva già in atto: le polizie avrebbero già fiutato un odore diverso nell’aria, l’odore della repressione ora finalmente possibile e anzi auspicabile.
Proprio sulla scuola si sono cominciate a sparare le parole-pallottole di una nuova guerra, oppure si continua a farlo, come del resto era accaduto con la pandemia: per la politica la scuola continua a essere il luogo più dimenticato nei programmi e nei bilanci, ma poi diventa la piazza in cui si combattono le prime e più cruente battaglie. A parole, che poi diventano cose: manichini, striscioni, caschi, manganelli.
Intanto nella scuola si fa la scuola. Cosa c’è dentro questa parola? Nella scuola ci sono tornato, nonostante non ci insegni più, a fare quello che sapevo fare: leggere un libro ad alta voce in mezzo a due, tre, quattro classi. Leggere a voce alta e sottolineare le parole che nascondono nell’ombra o mettono sotto una luce tanto forte le cose. Provare a svelarle almeno un po’ e a farle diventare compagne della vita dei ragazzi che mi ascoltano.
Nella scuola ci sono entrato e ho trovato qualche collega alle prese con il pc, qualcuno nel solito capannello all’inizio delle lezioni e il più vecchio tra loro – richiamando l’attenzione di chi stava al computer – mi ha salutato dicendo: ecco, questo qui è venuto a farci vedere che la scuola si può ancora fare.
Dal pc si è alzato uno sguardo sconsolato e la voce di una giovane professoressa di lettere: ah, ecco, anch’io vorrei poter anche insegnare!
Sono andato nell’aula più grande in cui stavano le mie colleghe con le due classi prime ad aspettarmi. In mezzo il falso microfono che ho imparato a mettere lì al centro dell’aula da un libro americano che spesso abbiamo letto a scuola. Ho letto le pagine in cui un aviatore sperduto nel deserto incontra “un mistero così sovraccarico che non si osa disubbidire”.
Poi, con le seconde, le parole di Cesare, un ragazzo alle prese con il “periodo peggiore della vita, persino di quello delle medie”. Ho letto e messo davanti agli occhi di quei ragazzi le parole che stavano lì a respirare con i polmoni dell’aviatore, del piccolo principe, di Cesare. Ho preso quelle parole e ho detto loro di mettersele in tasca, come sassi: da una parte il cellulare, dall’altra queste pietre preziose. Non ho dato un compito. Ho chiesto loro, durante la settimana, di tirare fuori ogni tanto anche quelle parole-pietre, mica solo lo smartphone. Di stringerle nel pugno, di provare a vedere come loro potessero usarle. Di scriverle in un testo, se volevano, facendole tornare in vita dentro il loro racconto.
Lo so, sono fortunato: io non sono più il loro professore, non devo dare dei voti, li ascolterò soltanto raccontare – solo se vorranno, nella prossima lezione – la loro versione dei fatti. Le loro parole-pietre. Ma i miei colleghi presenti in classe con me potranno cominciare con questi sassi a segnare una strada, la loro strada. Magari a riscrivere il loro programma.
Del resto, come già qualche giorno fa su queste pagine Monica Bottai ricordava, i programmi non esistono più da anni, esistono le indicazioni. E all’interno di queste occorre scegliere: una parola di cui la scuola non può fare a meno e di cui gli insegnanti dovrebbero riappropriarsi. Perché aveva ragione il mio anziano collega: la scuola si può ancora fare. Anzi, in molte scuole già si fa e bisognerebbe imparare da loro.
Egregio Ministro dell’Istruzione, tra tutte le parole che le suggeriranno di aggiungere o togliere, tra tutte quelle politicamente corrette che risulteranno nel libro dei buoni o quelle politicamente scorrette che quegli stessi buoni metteranno all’Indice, spero abbia il tempo di ascoltare le parole di quella giovane collega incontrata l’altro giorno in sala professori: per convincerla che non si dovrebbe fare la scuola nonostante la scuola. Che la scuola può fare ancora la scuola.
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