Federica entra nel buio del freddo mattino della provincia milanese. Sale sulla macchina che la porta alla stazione: è presto, certamente riuscirà a trovare un parcheggio. Rimarrà in piedi, comunque, nella carrozza del treno affollata di pendolari. E sarà così anche in quella della metro. In fondo non avrebbe bisogno di andare così presto all’università: la tesi è finita, c’è solo qualche aggiustamento da fare sulla bibliografia, come il professore le ha suggerito qualche giorno fa.



Certo, se il professore avesse guardato prima il suo testo, se lo avesse letto mentre lei lo scriveva, capitolo per capitolo, magari sarebbe arrivata con maggiore tranquillità alla consegna del suo lavoro. Ma con candore sfacciato e infinito il prof le ha confessato – giusto due settimane fa – di essere troppo buono, di accettare che gli studenti facciano tesi con lui pur sapendo di non avere poi tempo per seguirli davvero.



Così la sua tesi su un poco famoso scrittore italiano se l’è tirata su da sola, ricca dell’esperienza del precedente lavoro per la laurea triennale. Pochi giorni la dividono dalla consegna delle copie in segreteria, giusto il tempo di sistemare quelle quattro cose nella bibliografia. Non ci sarebbe bisogno di andare così presto a Milano. Se avesse fatto in tempo la sera prima a prenotare il suo posto in biblioteca: le prenotazioni on line scattano alla mezzanotte e, se aspetti mezz’ora, di posti non ce n’è più. Federica ieri si è addormentata prima della mezzanotte, come una Cenerentola troppo ubbidiente. Così adesso corre trafelata per accaparrarsi un posto in una delle due aule riservate allo studio degli iscritti alle diverse facoltà.



Non si prenota, chi arriva prima si accomoda. Lei oggi ce l’ha fatta: siede sul tavolone con altri studenti, tira fuori il suo computer, si mette al lavoro. Dopo un quarto d’ora però arriva un tizio con uno stereo sulla spalla, lo appoggia in mezzo all’aula e attacca la musica. E si mette a ballare. Non è la prima volta. Lentamente si spoglia, rimane a torso nudo e mutandoni. Arriva gente anche dai corridoi lì intorno. A qualcuno potrebbe sembrare una festa. A Federica no. Insieme a una sua amica esce. Cercano di trovare un posto dove scrivere e studiare. Trovano quattro gradini liberi, quelli che portano al piano di sopra dove ancora oggi, dopo cinque anni, non ha ancora capito che cosa ci sia.

Su quei gradini lavorano fino all’ora di pranzo. Che si è portata da casa, perché la mensa non pare ancora garantire niente di buono. In fondo oggi va bene così, perché qualche volta è capitato che dovesse andare a mangiare all’aperto. E mica d’estate, che potrebbe anche essere bello: d’inverno con su la sciarpa e il cappello.

Federica ha quasi finito quando arriva un gruppo di sue compagne di corso. Che ci fai qui? Non avevi finito? Le chiedono quasi in coro. Lei sorride: certo mi manca poco, finalmente il prof ha letto la tesi, la settimana prossima stampo e consegno. Ma lo dice quasi come se dovesse scusarsi. E non vorrebbe. Vorrebbe che fosse chiaro che quel posto lì è casa sua, che è lì che deve stare, che è lì che dovrebbe avere un posto caldo dove studiare, scrivere, mangiare, incontrare persone. Nonostante tutto lei ci crede ancora.

Lei il suo poco famoso scrittore italiano lo vorrebbe insegnare alla scuola, farlo conoscere ai ragazzi. Ma adesso che ha finito l’università le vengono a dire che dovrà fare corsi per acquisire crediti che le consentiranno di ottenere i requisiti per avere l’abilitazione e poi fare il concorso. Corsi che dovrà fare all’università. Pagando anche 2.500 euro per frequentare. Dove le faranno le lezioni? Nell’ammezzato davanti alle macchinette che non distribuiscono caffè da tre anni? Nel corridoio davanti ai cessi con le porte sfasciate e le scritte inneggianti ad Hamas?

Ma questo, lei che è convinta che questa sia la sua casa, potrebbe ancora sopportarlo. Quello che non si può sopportare è che ogni anno riscrivono le regole, e ogni anno ci si allontana sempre di più da quello che lei pensa essere l’insegnamento. Corsi per CFU – 24, 30, 60, quando me lo ha raccontato io davvero ho fatto fatica a capire – che assomigliano sempre di più a una palestra d’indottrinamento che trasformerà l’insegnamento in un’attività di addestramento e di semplice organizzazione del lavoro degli studenti, o quando va bene alla trasmissione di contenuti o, peggio, di procedure allo scopo di far acquisire competenze misurabili, o peggio ancora di padronanza multimediale.

Federica torna alla stazione dentro il buio e alla frenesia di Milano. Non tanto tardi, perché poi sui treni che vanno verso casa – sempre che ce ne siano e che siano in orario – è meglio salirci fino a una certa ora. Dopo no, si rischia. E, dondolata dal vagone, a Federica viene in mente quello che scriveva Rainer Maria Rilke: “tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace / un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile“. Quello di cui si tace, pensa Federica, è proprio lei. La sua voglia di studiare, il suo desiderio di imparare. E si tace della scuola vera, di quello di cui hanno bisogno gli studenti dell’università e quelli delle scuole di tutti gli ordini e gradi.

Le cose rotolano via lentamente come il suo treno sui binari, mentre qualcuno disegna e progetta percorsi dai nomi altisonanti che nulla hanno a che vedere con ciò di cui davvero lei e tutti gli altri hanno bisogno. Ce ne sarebbe a sufficienza per essere prostrati e disillusi. Non per Federica: sorridendo a un gruppo di ragazzi più giovani di lei, con gli zaini della scuola, con le cuffie nelle orecchie, sa che per lei e per loro non è il momento di arrendersi. Che loro, la vita e le cose sono più grandi di tutto il buio, la disaffezione, l’incuria, l’ipocrisia, la falsità dentro cui chi pensa e governa la scuola sembra affondare.

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