Qualche giorno fa ho letto questo bellissimo post sulla pagina Facebook di monsignor Andrea Bellandi, vescovo di Salerno.
“Oggi, incontrando gli studenti del Liceo Medi di Battipaglia, una ragazza ha letto queste righe bellissime e pienamente condivisibili! Desidero condividerle.
Sono giovane, è scontato che io sia felice, sto vivendo gli anni migliori della mia vita. Sono giovane è ovvio che, non sempre, vengo presa sul serio. Essere giovane è difficile. Questa società è a misura di adulti troppo indaffarati, che non hanno mai tempo per fermarsi ad ascoltare ciò che abbiamo da dire. Per molti adulti il criterio della felicità è l’efficienza, dimenticando, invece, che dipende dalla profondità di rapporti che abbiamo con il mondo e con gli altri. Le relazioni sono fondamentali per noi, danno senso alla nostra vita. Relazione significa: famiglia, amicizia, amore. Le incomprensioni, l’indifferenza e la chiusura ci rendono infelici. Essere giovani è difficile. Nessuno ci insegna ad essere giovani. E voi adulti cercate di accogliere e ascoltare la nostra generazione che ha tanto da dire, ma anche da dare. Ci sono adulti sempre pronti a sottolineare cosa c’è che non va, senza poi preoccuparsi di darci motivazioni accettabili. Sono gli stessi che poi si chiedono, come mai, molti giovani sono insofferenti, forse non hanno avuto le risposte giuste. Essere giovani è difficile. Ci si aspetta che cresciamo in fretta, ma le nostre lotte vengono viste come capricci infantili. Pochi si sforzano di scrutare l’universo giovanile, eppure è da noi che ci si aspetta che lottiamo per i nostri sogni e che miglioriamo il mondo che abbiamo. Gli adulti dovrebbero provare ad avvicinarsi ad una generazione così poco conosciuta ma anche tanto etichettata. Dateci fiducia in un futuro che percepiamo minaccioso. Fidatevi di noi, dateci tempo. Se non ci remerete contro comprenderete che siamo una generazione piena di risorse e capace di offrire al mondo il proprio prezioso contributo”.
Mi ha colpito l’intensità con la quale questa studentessa esprime, non come una rivalsa ma quasi come una preghiera, il desiderio di un dialogo con gli adulti. Negli stessi giorni ho partecipato a un incontro organizzato dall’Ufficio scolastico con alcuni esperti sulla metodologia del Service Learning. Un racconto di esperienze nel quale emergeva la difficoltà più grande che oggi attanaglia le comunità scolastiche: il divario tra ciò che gli adulti pensano sia “il meglio” per i ragazzi e il loro reale “protagonismo”. Cioè se essi siano effettivamente interpellati riguardo ad imprese educative di cui sono soggetti protagonisti. E mi sono tornate in mente le bellissime parole della studentessa del Medi che esprimono ciò che anche i miei studenti desiderano e che dai dialoghi con loro, attraverso il Comitato studentesco, sempre mi sorprende.
Innanzitutto la presunzione che poiché sono giovani debbano, per forza, essere felici. Lo sguardo che abbiamo, da adulti, sui ragazzi è sovente inficiato della nostra idea di felicità: la disponibilità del tempo, la spensieratezza come assenza di responsabilità. Salvo, poi, riversare, sulle loro spalle il testimone della realtà che va cambiata perché piena di errore. “Per molti adulti il criterio della felicità è l’efficienza, dimenticando, invece, che dipende dalla profondità di rapporti che abbiamo con il mondo e con gli altri”. Ma quali sono questi rapporti? Che vuol dire instaurare una relazione efficace con chi siamo chiamati a educare? Anzi, diciamolo meglio: con chi abbiamo il compito di condividere un percorso educativo da genitori, da insegnanti, da rappresentanti del bene sociale comune? “Relazione significa: famiglia, amicizia, amore. Le incomprensioni, l’indifferenza e la chiusura ci rendono infelici”. “Pochi si sforzano di scrutare l’universo giovanile, eppure è da noi che ci si aspetta che lottiamo per i nostri sogni e che miglioriamo il mondo che abbiamo”. “Dateci fiducia in un futuro che percepiamo minaccioso. Fidatevi di noi, dateci tempo”. Sì, una preghiera di ascolto e di fiducia. Non un accordo tra le parti.
I nostri ragazzi chiedono non solo di essere ascoltati ma specialmente di essere interpellati. Galimberti, in una recentissima intervista sul Corriere della Sera, a proposito dell’esempio che devono dare i genitori, afferma: “L’esempio è quello che deve funzionare dopo i 12 anni, appunto. Dopo quell’età è inutile che i genitori si lamentino perché i figli non parlano: non lo fanno perché prima i genitori gli hanno parlato pochissimo o comunque non abbastanza. E quando i figli parlano, i genitori devono ascoltarli. Ma con l’atteggiamento di chi pensa: forse io ho qualcosa da imparare da te, sono interessato alle competenze che tu hai e che io non ho. Se c’è questa disposizione, i figli ricominciano a parlare”.
È quanto mi testimoniavano gli studenti della mia scuola all’indomani dell’incontro con il procuratore Gratteri, un momento unico nel quale erano stati i soli protagonisti, i loro interrogativi come punto di partenza. E allora forse la domanda, la prima domanda, che dovremmo porre in dialogo con i nostri ragazzi è: “sei felice?”. La risposta, quale essa sia, spalanca verso un orizzonte rischioso e richiede il tempo lento della riflessione e della condivisione. Ma, fuor di dubbio, è piena di bellezza.
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