“Professore, ma lei ci vuole bene?”. La domanda di Silvia mi coglie di sorpresa durante la ricreazione, nel cortile antistante l’entrata del liceo classico in cui insegno. “Certo che ve ne voglio! Non si vede?”. “Sì, prof. si vede”, mi rassicura la mia alunna di terza liceo. Eppure, la mia mente ripercorre l’anno scolastico che sta per concludersi in cerca dei segni di quel bene che dico di volere loro, adesso che siamo giunti alla fine del percorso liceale.
È stato un anno difficile. Usciti dagli screen del pc, materializzatisi in classe, i volti dei nostri alunni sembravano ben riconoscibili pur dietro alle mascherine. Potevi guardarli negli occhi e riprendere il discorso interrotto, anzi solo trasposto a distanza, quasi due anni prima. Bisognava fare in fretta per recuperare il tempo perduto e prevenire i possibili colpi di coda della pandemia.
Man mano che ci si inoltrava nell’anno scolastico, però, in sala prof ci si accorgeva che averli “in presenza” non significava affatto averli “presenti”. Sin dal ritorno dalle vacanze natalizie, infatti, dopo l’euforia per una ritrovata “normalità”, li avevamo visti disperdersi nei mille rivoli dei corsi di preparazione alle prove d’ingresso delle facoltà universitarie, nello sforzo per conseguire le necessarie certificazioni linguistiche e, infine, assentarsi per partecipare ai fatidici test dal cui superamento, ai loro occhi, realmente dipendeva il proprio futuro. E così le giornate dei miei studenti si riempivano di cose da fare, mentre le ore di lezione si svuotavano di energia e di rilevanza. Provavi ad afferrare la loro umanità ed essa ti sfuggiva, imprendibile tra le mani come un’anguilla.
Il momento dell’interrogazione ne era la rappresentazione plastica. Tra aprile e maggio, per trovare una persona preparata bisognava rifare l’appello. Avendo due classi terminali, quella dei più “scaltri” metteva in vetrina “i volontari” che, già in modalità “piccoli universitari”, “portavano” gli autori come presentati dal libro di testo. Nessuna traccia del pericolo travolgente e attuale dell’omologazione e della spersonalizzazione previsti da Orwell sui quali mi ero accalorato durante le lezioni; nessuna evidenza della decisività di una “compagnia” nella lotta per resistere a questo processo di disumanizzazione indicata da Tolkien e Eliot; nessuna responsabilità personale rispetto all’indifferenza del mondo degli adulti denunciata da Salinger.
La parola più aborrita dalla mia IIIA è stata “significato”. “Ma perché ce l’ha tanto col nichilismo, prof?” sbotta stizzita Stefania. “Nulla regge, tutto finisce in niente”. “Cosa dovrebbero dire i genitori a Holden rispetto alla morte del fratellino Allie? Cosa si può dire di fronte alla morte?”. Vorrei raccontare di me, ma interviene Anna a confermare le parole della compagna. “Si può benissimo vivere la vita facendo le cose che si devono fare ogni giorno, senza drammi, anche se nulla ha un senso ultimo”. A me vengono in mente le immagini delle case sventrate di Severodonetsk che faccio sempre più fatica a guardare in un contesto di assuefazione in cui, tra Russia e Ucraina, a perdere rischia di essere la mia umanità.
“Non vedo l’ora di uscire da questa scuola di mmerda!” chiude la discussione Stefania. Per un momento mi aspetto che le sacre mura dell’istituzione che ci ospita ci precipitino addosso. Gli dei dell’Olimpo, invece, ci risparmiano pietosi.
Inutile insistere: interrogo. Mando i volontari in cattedra. “Tell me about your Joyce” li incoraggio sedendomi tra i banchi. Mentre passo tra la fila dei banchi, per la prima volta, rinuncio a richiamare Giulia che, seduta davanti a me, continua a messaggiare nascondendo il cellulare tra sé e il portapenne, in modo che io non mi accorga. Se la realtà non ha significato, infatti, cosa impedisce di sotterrare nell’indifferenza qualsiasi richiamo a dare spazio a qualcosa di più grande del proprio sentimento del momento? Voglio ancora il bene di Giulia?
Last lesson. Con il fiato corto, boccheggiante sotto la mascherina per i trentacinque gradi di un’estate siciliana già scoppiata, mi avvio lungo il corridoio verso la classe di Silvia.
Li saluterò con un brano musicale. “Quando vedo te vedo la speranza” canta Roo Panes rivolgendosi alla sua Ophelia. “Alla fine di questi anni insieme – dico congedandomi dai miei alunni – spero di avervi aiutati a essere un po’ più certi che la vita è per voi e non contro. E vi auguro che abbiate sempre qualcuno a cui guardare, un volto, vedendo il quale si riaccenda in voi la speranza che quello che desiderate c’è, che è possibile”. Anche se quella faccia non è stata la mia.
Cosa resta a me di quest’anno? Rischia di annegare nel lamento del fallimento, nel tritacarne dei bilanci della mia insufficienza, oppure, può divenire domanda, forse preghiera, che il disegno misterioso e bello della loro esistenza si compia oltre l’orizzonte temporale delimitato dal registro elettronico e della mia capacità di volere il loro bene. Non in uno scarabocchio, ma, come dice il “mio Wilde”: in un’opera d’arte.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.