Due fatti, distanti. Una decina di giorni fa entro in una classe, il discorso cade sulla situazione in Ucraina. Un ragazzo si alza, va vicino all’enorme cartina dell’Europa appesa alla parete e inizia a indicare i fronti sui quali la Russia sta posizionando le sue forze armate per preparare l’invasione. Lo fa come se fosse un gioco da tavolo, così si solleva qualche risata nella classe. Giancarlo, nome di fantasia, fa notare che non c’è molto da ridere. Allora decido che l’attività che stavo per iniziare viene rinviata e iniziamo a leggere insieme un articolo pubblicato la mattina su un quotidiano.
Secondo fatto. Io e gli altri colleghi veniamo a sapere che un nostro studente qualche mese prima ha perso il padre. Nessuno lo aveva saputo. Approfittando dell’assenza dell’interessato, ne parlo con i ragazzi, chiedo loro se lo sapessero: qualcuno sì, qualcuno no, vedo che qualcuno sussurra e si scambia delle risatine, si intuiscono nonostante le mascherine. Qualche ragazzo mi fa osservare che è un fatto privato la morte di un genitore, perciò doveva essere direttamente l’interessato a decidere se dirlo o no. Tradotto: sono fatti suoi, lei perché adesso ne parla con noi se lui non lo ha fatto?
Cerco di far capire che ne stiamo discutendo perché quello di cui abbiamo bisogno nei momenti difficili è di una presenza amica, di sentirci voluti bene, anche senza parole e che perciò vale la pena condividere la notizia. Mi chiedo se sia così complicato da capire, a me sembra abbastanza evidente. Sono ferita da quella discussione, ma penso di essere io la marziana. Così dopo qualche giorno mi confronto con il mio giovane collega di sostegno, presente con me quel giorno; mi interessa sapere se vivo fuori da mondo o qualcosa in questo mondo stia girando al contrario. Anche lui ha percepito le battute ed è rimasto impressionato dal voler considerare la morte e il dolore di un compagno un evento privato, che non ci interpella.
Due fatti, una unica radice: chi è l’altro per me?
L’Ucraina è distante, pensavano i miei studenti quella mattina, studiando la disposizione dei carri armati come si fa con il Risiko. Come un videogiochi. Il nostro compagno che ha perso il papà soffre, ma è un dolore suo, ognuno ha il suo piccolo mondo, che con due anni di pandemia si è ristretto ancor di più. E non si tratta assolutamente di ragazzi disinteressati, che non hanno voglia di studiare: sono due classi di cui noi docenti siamo contenti, la maggior parte di loro studia, consegue buoni risultati scolastici e tutti sono educati e rispettosi, al di là del rendimento scolastico.
Ritorna la domanda: chi è l’altro per me? La cosa più ardua è educare noi stessi, adulti, e i nostri studenti a guardare l’altro e sentirlo parte di sé. “Le forze che cambiano il mondo sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”, diceva don Luigi Giussani. Se nel cuore dell’uomo l’altro – il compagno di banco o l’uomo che vive a chilometri di distanza – è un estraneo, esisterà solo il mio fazzoletto di terra, il mio orticello, il mio piccolo interesse, il mio piccolo potere. Che nel tempo può diventare un grande interesse, un grande potere, per difendere il quale potrò distorcere qualunque diritto. Invece educare al bene comune vuol dire educare, nel proprio piccolo pezzetto di mondo, a sentire l’altro come fratello, perché la nostra condizione umana è la medesima.
Scienze, matematica, fisica, storia, filosofia: cosa sono le nostre discipline se non lo strumento per comunicare la grandiosità dell’essere umano, della sua ricerca del significato della realtà, che gli uomini che ci precedono mettono a disposizione di ognuno di noi, come ricchezza e bagaglio comune? È una grande sfida: educare a sentirsi parte non di una umanità astratta, ma di una comunità in cui il destino di ognuno è legato a quello degli altri.
Non con i proclami, ma partendo dal quotidiano: da come tratto un collega, un amico, un genitore, dalla cura che ho per il posto in cui vivo. Senza curare le piccole cose, come potremo curare le grandi?
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