Torniamo sul caso della formazione dei docenti in servizio per dire che servirebbe una riflessione aperta e coinvolgente (che non c’è) per evitare la colata lavica di statalismo che potrebbe rovesciarsi sulle scuole se non si mettono le cose in chiaro.

Dunque, la legge 29 giugno 2022 n. 79 ha convertito il decreto legge 36/2022 e barcamenandosi tra formazione obbligatoria e formazione volontaria ha specificato quanto segue.



Obbligatorio è l’aggiornamento sulle competenze digitali e l’uso critico e responsabile degli strumenti digitali “anche con riferimento al benessere psicofisico degli allievi con disabilità e ai bisogni educativi speciali, nonché le pratiche di laboratorio e l’inclusione”. Questo tipo di formazione obbligatoria per tutti si svolgerà nell’ambito dell’orario lavorativo e sarà perfezionata da percorsi triennali per le “figure di sistema”. Obbligatoria sarà anche la formazione per i docenti immessi in ruolo in seguito all’adeguamento del contratto collettivo.



Un secondo capitolo della formazione sarà su base volontaria e riguarderà i processi di innovazione didattica, organizzativa, di supporto all’autonomia scolastica, al lavoro didattico, ecc. I docenti che si aggiornano (fuori dell’orario scolastico) saranno incentivati con il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa.

Il punto di svolta di tutta la vicenda formativa è la consegna dell’intero pacchetto alla Scuola di alta formazione dell’istruzione, un ente spuntato a sorpresa dal cilindro del Miur, sul quale stanno cominciando a fioccare le polemiche. Per i costi che la nuova creatura comporterebbe (8 milioni di euro) e per la complessità della struttura (un presidente, un direttore generale, un comitato d’indirizzo, un comitato scientifico internazionale). Per fare che cosa? Per gestire appunto tutta la formazione in servizio dei docenti di ruolo, dei dirigenti scolastici, del personale amministrativo e tecnico, ecc.



La logica che presiede la manovra è abbastanza evidente: la formazione è sottratta alle scuole e messa nelle mani di un ente superiore che dovrà calare nelle coscienze pillole di saggezza maturate fuori dal campo didattico-educativo, magari a contatto con direttive europee o internazionali. Si dà per scontato, dunque, che la formazione attenga alla rielaborazione di contenuti che poco hanno a che fare con l’esperienza dell’insegnamento e molto con le procedure di costruzione di ambienti di apprendimento. Una formazione delegata a esperti, insomma, ma non esperti in umanità, bensì in adattamento dei contenuti alle necessità del momento che parlano di ambiente, clima, transizione digitale, attivazione didattica, ecc. Se da una parte il dettato legislativo rimarca che “saranno accreditate le istituzioni deputate a erogare la formazione continua”, resta il dubbio che il pluralismo culturale e l’autonomia scolastica, con il nuovo carrozzone che sta per prendere il via, siano considerate delle malattie da curare piuttosto che un bene da conservare.

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