Caro direttore,
dopo aver letto vari articoli e testimonianze sui paradossi e cortocircuiti dell’ultimo concorso docenti è cresciuta in me l’incredulità per l’organizzazione della prova scritta del concorso a cattedre per i futuri docenti. Il tipo di domande, debitore ad un nozionismo parossistico, il tempo ridottissimo concesso per ogni risposta sembrano proprio scambiare la cultura necessaria ad un insegnante con un enciclopedismo assurdo e irrealistico. 



È vero, come ha scritto Pierluigi Castagneto, che il concorso appare paradossalmente un espediente fatto apposta “per tenere lontani i giovani dall’insegnamento”, e forse i giovani migliori e più appassionati al mestiere, visto che molti dei concorrenti sono già in cattedra come precari. Chi ha preparato quelle domande sembra appartenere a un altro mondo rispetto alla scuola e alla realtà concreta che in essa vivono docenti e allievi.



Ho ripensato alla mia esperienza. Appena laureata (tra qualche mese saranno cinquant’anni!) fui “gettata” ad insegnare storia e filosofia come precaria, con orario pieno a tre classi di liceo scientifico abbastanza esigenti, in un liceo statale alle porte di Milano, senza tirocinio né alcuna preparazione particolare.

Allora ognuno doveva imparare il mestiere sul campo, cioè con gli studenti che gli venivano affidati e spesso a spese di questi ultimi. Ben presto ebbi modo di accorgermi che la mia formazione scolastica e universitaria non era sufficiente per affrontare questo “campo” e le sfide che mi venivano poste. La prima reazione fu di continuare a studiare, ovviamente, per preparare le lezioni (rigorosamente frontali), ma anche per approfondire, chiarire, completare i contenuti appresi negli anni precedenti. La seconda reazione fu di chiedere consigli, pareri, confronti, circa i contenuti dei programmi e il modo di presentarli nelle classi, ad amici più grandi e un po’ più esperti.



Col tempo, cominciai a frequentare un gruppo di docenti che si riuniva con una certa regolarità presso l’Associazione Diesse, gruppo in cui si mettevano in comune le difficoltà ma anche le conquiste e le proposte che via via emergevano nella didattica quotidiana, in particolare della storia che statisticamente non era (non è) una delle materie più amate dagli studenti. Molto utili sono stati i vari corsi di aggiornamento ai quali mi iscrivevo, perché mi sembravano potessero soddisfare il mio bisogno di sapere di più e meglio: conservo tuttora una manciata di attestati di frequenza a tali corsi, che a volte erano anche obbligatori per un certo monte-ore.

Seguendo la teoria pedagogica di Gentile, di cui peraltro non condivido l’ontologia, rifuggivo da metodi eccessivamente prescrittivi e da imposizioni burocratiche ingabbianti, per cui mi ritagliavo spesso piccoli spazi di creatività nelle scelte didattiche quotidiane: partire da un avvenimento attuale, vedere un film con la classe, organizzare una visita culturale appropriata, incontrare un personaggio significativo a scuola o fuori…

Tutto questo allo scopo di coinvolgere gli allievi in una avventura entusiasmante, volta alla apertura della ragione nonché alla comprensione di ciò che nel tempo ha costruito, nel bene e nel male, la nostra identità. Lavoro per il quale le materie e le nozioni sono ovviamente necessarie.