In un fondo apparso sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, Angelo Panebianco passa in rassegna con la consueta lucidità i mali della nostra scuola. L’elenco è lungo e forse potrebbe esserlo anche di più, ma il rischio è che un approccio analitico faccia perdere di vista che non si tratta di fenomeni fra loro indipendenti e casualmente concomitanti, ma degli effetti di un numero limitato di cause di sistema, che in sostanza si riconducono a due: la formazione iniziale/reclutamento degli insegnanti e l’approccio spregiudicato della politica (tutta) alla questione scuola.



Cominciamo dalla prima. L’Italia è forse l’unico paese che non ha mai avuto un percorso specifico di formazione per i futuri insegnanti. Di fatto, la laurea in una disciplina è l’unico viatico che accompagna il loro cammino. In origine, era così per una scelta, filosofica prima che politica: si riteneva che “sapere” coincidesse con il “saper insegnare”. Era una ricetta che poteva funzionare, e funzionò, fino a quando l’insegnamento superiore ed universitario era riservato ad un’élite, che acquisiva per altri canali le risorse di carattere e di intelligenza per colmare il deficit. Nella scuola divenuta di tutti non poteva più bastare: e non bastò.



Ci sono voluti però trent’anni perché il problema venisse affrontato: i trent’anni dell’espansione solo quantitativa del sistema scolastico, in cui – pur di far presto – si mandava in cattedra chiunque, perfino studenti al secondo o terzo anno di corso, salvo regolarizzazione successiva.

Con gli anni Duemila, è cominciata la fase delle “scuole di specializzazione post-universitaria”, variamente denominate: Ssis, Tfa, Fit, fino ad arrivare all’attuale nulla. Al di là del loro comune limite di fondo, quello di contenere molta teoria e poca pratica, quei tentativi sono stati regolarmente travolti dalla pressione degli innumerevoli “precari”, cioè coloro che, avendo comunque svolto supplenze più o meno lunghe, rivendicavano la sistemazione con precedenza sui nuovi venuti. Ogni volta, la soluzione è stata la stessa: si azzera il modello precedente, a volte senza mai averlo messo alla prova, se ne inventa uno nuovo e – nelle more del suo avvio – si sistemano “per l’ultima volta” quelli che hanno comunque insegnato. Cosicché in cattedra siede solo una percentuale ridotta di docenti che hanno ricevuto una formazione strutturata.



Ma il problema è ancora più ampio e va ricercato nell’assenza di percorsi dedicati unicamente alla preparazione all’insegnamento. Per diventare medici, non ci si laurea prima in chimica, poi in fisica, poi in anatomia, ecc.: si segue un percorso che integra le diverse conoscenze in vista di un fine unico. Lo stesso vale per le altre maggiori professioni: avvocato, architetto, ingegnere e così via. Invece, per diventare insegnanti, si segue un percorso identico a quello di chi vuole diventare ricercatore universitario in qualunque settore accademico. Si consegue una laurea specialistica, durante la quale – almeno in teoria – si va a fondo in un campo del sapere: molto più a fondo di quel che si avrà mai l’occasione di utilizzare in aula. Poi ci si improvvisa insegnanti: il più delle volte, come si è visto, senza ulteriore formazione; in una parte relativamente piccola dei casi, avendo aggiunto altri tre anni di studi prevalentemente teorici. E, comunque, non si sceglie fin dall’inizio il punto di approdo: sicché, in non pochi casi, si arriva all’insegnamento per esclusioni successive e senza una reale consapevolezza/condivisione di cosa significhi insegnare, cioè di quale sia il mandato sociale del docente.

Con l’aggravante che una superficiale vulgata spinge poi non pochi a confondere la libertà di insegnamento con una sorta di licenza di uccidere, ovviamente in senso metaforico. Fuor di metafora, a credere che la propria personale visione della funzione sia sempre ed in ogni caso legittima ed utile e di non doverne rispondere in nessun caso alla comunità.

Ci sono, in questa modalità di accesso, diverse criticità.

La prima, che si studia seguendo un percorso pensato in origine per fare “altro”, cioè ricerca disciplinare, e poi occorre trovare da sé il modo per tradurre quel che si è appreso in atti pedagogici.

La seconda, che si interiorizza nel futuro insegnante la convinzione che il centro e il fine del suo agire sia la sua disciplina e non la funzione servente che essa deve svolgere nei piani di studio delle scuole secondarie. Italiano, matematica, lingue, scienze non si studiano per se stesse, ma come parte di un percorso di formazione, che se ne avvale, ma che non si identifica con nessuna di esse.

Più una terza, di tipo motivazionale: ciò che spinge inizialmente ad iscriversi ad una facoltà non ha molto a che vedere con quel che si andrà a fare. E quindi insegnare è, abbastanza spesso, un lavoro di seconda chance, un ripiego. In fondo, per malpagato che sia, è l’unico profilo lavorativo da laureati che sia disponibile in tale abbondanza. Ed in cui, in aggiunta, non si debba render conto dei risultati.

(1 – continua)