Il recente articolo di Fabio Carpenedo racconta una realtà del quale, se non mi inganno, pochi giornali hanno parlato con adeguata competenza e significative osservazioni. Forse perché il problema generale del precariato, che ancor oggi pesa come un macigno sul sistema scolastico nazionale, in certa misura ha schermato e reso meno evidente l’autentico insulto perpetrato dall’amministrazione scolastica nei confronti degli studenti, degli stessi docenti e, perciò stesso, di un gran numero di famiglie.
Chi ha dovuto coordinare le intricatissime operazioni delle immissioni in ruolo previste della legge 107/2015 guarda con stupefatta inquietudine all’attuale situazione, che ha visto al 10 di dicembre 2024 (dicesi dicembre, metà quadrimestre per molte scuole, nemmeno finito il trimestre per quasi tutte le superiori) l’espianto di innumerevoli supplenti dalle loro sedi, obbligati ad assumere servizio in scuole diverse da quelle dove insegnavano (la voragine nelle paritarie non è stata meno ampia) per obbedire alla cieca cogenza del PNRR, i cui fondi sono stati usati per evitare – ancora una volta – il precariato.
La legge 20 maggio 1982 n. 270 recava come titolo “Revisione della disciplina del reclutamento del personale docente della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica, ristrutturazione degli organici, adozione di misure idonee ad evitare la formazione di precariato e sistemazione del personale precario esistente”. A distanza di 42 anni non è cambiato nulla. O meglio, ci troviamo sotto una massa spaventosa di norme emanate per la stessa ragione, ma il sistema è rimasto impermeabile a qualsiasi cambiamento. Questo perché si continua a cercare la chiave di casa sotto il cono di luce del lampione più vicino, piuttosto che guardare intorno con una pila per trovarla là dove si è effettivamente perduta.
Questa è la scuola. Quando si verifica qualche problema, le dimensioni ciclopiche della struttura rendono assolutamente difficile da vedere quanto sta succedendo. La scuola è una catena montuosa come le Ande, o come l’Himalaya. Quando si cerca di abbracciarla con uno sguardo d’insieme bisogna allontanarsene, ma in questo modo non si vedono i crepacci, non si notano le scoscese dorsali, non si coglie lo scioglimento dei ghiacci. Ma quando ci si avvicina e si punta l’obiettivo su una parete o su una valle, il formicolio delle questioni e l’ansia di mettere ordine in quello che sembra un caos circoscritto provoca terremoti e valanghe a distanze impensabili e così riprende il lavorio, continuo, incessante e rovinoso di quanti si ostinano a mantenere questa complessità nel nome di un malinteso senso della unità del sistema.
Non possiamo qui affrontare in modo esaustivo un tema di straordinaria complessità, ma è evidente che fintantoché non sarà possibile dar corso pieno ed effettivo all’autonomia scolastica, il cui regolamento (DPR 275/1999) costituisce uno dei più nitidi ed eleganti monumenti del diritto amministrativo italiano (non fosse altro per il linguaggio in cui è scritto), non si potrà nemmeno lontanamente pensare di uscire da questa situazione. Questo significa rivedere radicalmente lo stato giuridico dei docenti e affidare legittimamente ai presidi il compito di configurare gli organici che i concorsi mastodontici non possono completare e le folli modalità di abilitazione renderanno sempre pieni di buchi.
Chi ha in mano le sorti della scuola sul piano giuridico-amministrativo (ma sarei propenso a non escludere una co-responsabilità sindacale) forse non ha chiaro quali immani e complesse competenze deve dimostrare di avere un docente di matematica e scienze della secondaria di primo grado (o scuola media). Già trovare docenti di matematica e fisica e informatica per le superiori è un’impresa, ma centrare un docente di matematica e scienze per la scuola media è come vincere al lotto. Inoltre la folle idea, peraltro nata da una visione coerente ma onirica, della formazione dei docenti, di separare abilitazione e ingresso in ruolo mediante concorso, sta creando situazioni grottesche per rimediare alle quali si assiste a un continuo attorcigliarsi su se stessi delle disposizioni e dei provvedimenti.
Norme di estremo rigore, di ricca e articolata visione si stanno rivelando efficaci quanto le gride di manzoniana memoria. Non ricevendo dai concorsi i docenti con le caratteristiche previste dalla legge e non essendovi graduatorie adeguatamente formate per prelevarvi dei titolari abilitati, i presidi in tale situazione non solo possono, ma devono, fare gli sceriffi ricorrendo ai documenti MAD (Messa a disposizione) di coloro che, nel raggio ragionevole di alcuni chilometri, sono disposti, anzi chiedono, di poter insegnare.
E dunque? Che fare? Quando si dice cosa bisogna fare si alzano le duplici barricate dei burocrati da un lato e dei sindacalisti dall’altro: gli uni ci vengono a dimostrare come qualmente hanno le mani legate da norme che essi stessi hanno scritto, gli altri, per timore di perdere iscritti, brandiscono il fantasma della giustizia sociale, dell’unitarietà della scuola e della libertà sindacale, che sarebbero pregiudicate e calpestate da quegli stessi dirigenti scolastici sui quali poi tutti sparano, se qualcosa negli istituti non va come si vorrebbe.
Due sono le cose da fare e semplicissime, ma di difficilissima attuazione. Forse questo governo ha la forza per farle, temo però che da sinistra si scateni l’inferno con manifestazioni, occupazioni e scioperi. Ma anche se ci fosse un governo di sinistra, da destra non si starebbe fermi e si aprirebbero le ostilità. Questi interventi, infatti, scardinano l’immaginario collettivo della scuola, che risponde però alla realtà del XX secolo, non a quella attuale.
La prima azione consisterebbe nella unificazione dell’amministrazione scolastica. Deve finire la distinzione fra la carriera dei “ministeriali” e quella degli “scolastici”, soggetti in tutto e per tutto al potere degli amministrativi. La dirigenza scolastica e quella amministrativa dovranno coincidere. Il sistema scolastico del futuro non può vivere su una separazione fra chi conosce la scuola e chi pensa di normarla senza aver mai messo un giorno piede in un’aula.
La seconda sta nel cancellare senza remore e senza pietà l’attuale organizzazione di arruolamento, formazione iniziale e abilitazione dei docenti del secondo grado. Non ha senso separare l’abilitazione dal concorso. Non ha senso attivare concorsi di dimensioni ciclopiche (anche quelli regionali lo sono). Bisogna indire concorsi territoriali, fra reti di scuole, aperti a tutta Italia, ma con commissioni che velocemente e costantemente provvedano alle necessità degli organici a livello distrettuale. La garanzia dell’imparzialità non si ha nella dimensione ciclopica, ma nella affidabilità e costanza dei commissari. Si tratta dunque di istituire commissioni permanenti che si occupino solo del reclutamento dei docenti. Dovrebbero essere presiedute da dirigenti scolastici o tecnici, se necessario anche da docenti universitari, laureati e competenti nelle varie discipline, costituite da docenti di provata esperienza e lunga militanza scolastica, dediti costantemente ed esclusivamente a questo impegno.
Quanto alla formazione iniziale non può essere separata, per i docenti del secondo grado, dalla preparazione universitaria specifica. Se si pensa che 24 crediti non bastino a garantire una sensibilità educativa e didattica adeguata, si potrà alzare il numero: 30 sono già tanti, ma aggiungere ancora anni di studio per arrivare a 60, come attualmente si prevede, è un’autentica follia. Serve solo a far odiare la pedagogia, la metodologia e la didattica e farle considerare discipline inutili per l’insegnamento delle proprie materie. Il tirocinio ha certamente senso, ma deve essere affidato a docenti la cui funzione sia riconosciuta e adeguatamente premiata da specifica retribuzione di risultato.
Ma al di là delle questioni “interne” al sistema, ci sono altri fattori da considerare, non meno importanti e non meno capaci di condizionare pesantemente le decisioni dei futuri docenti. Si considerino due aspetti della situazione attuale del Paese: trasferirsi non solo da Matera ma anche da Rovigo e non solo a Milano o a Roma, ma anche a Verona o sul delta del Po, significa mangiarsi tutto lo stipendio in affitti e trasferte. Non solo. C’è dell’altro: pochi sanno che i giovani (e meno giovani) laureati che non avevano accumulato i crediti necessari per conseguire l’abilitazione, hanno dovuto versare anche 2.500 euro e più alle università alle quali è stato affidato il compito di svolgere i corsi e gli esami abilitanti. Un ulteriore gravame sulle spalle delle famiglie e dei singoli lavoratori, alla faccia della giustizia e dell’equità sociale.
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