La formazione iniziale dei docenti ha conosciuto negli ultimi decenni diverse riforme: dalla creazione delle Ssis alla loro soppressione, dall’istituzione di Tfa e Pas alla loro abolizione, dalla necessità per gli aspiranti insegnanti di fornirsi dei famigerati 24 Cfu, passati recentemente a 60. Il ministro in carica mostra di voler prendere sul serio le crescenti necessità di alunni sempre più distanti dall’istituzione-scuola, che dovrebbero trovare nel corpo insegnanti persone capaci di riconquistarli: “Sarà decisiva la capacità di motivare i ragazzi e di valorizzarne i talenti”. Il nuovo percorso formativo sulla formazione dei docenti della secondaria di primo e secondo grado si presenta come più organico del passato: gli insegnanti abilitati dovrebbero essere “fortemente strutturati, con alle spalle un importante percorso di formazione disciplinare e pedagogica e meccanismi di valutazione che garantiranno l’efficacia didattica”.



Forse una novità di quest’ultima proposta potrebbe essere proprio l’impegno a valutare formazione acquisita, anche se la formula usata si presta a qualche dubbio: “I percorsi formativi saranno oggetto di una valutazione periodica ‘ex post’ da parte dell’Anvur che, per assicurare omogeneità della qualità dell’offerta formativa da parte delle università, terrà conto del ‘tasso di successo’ dei nuovi abilitati alle procedure di reclutamento per la scuola”. In attesa di vedere come lo scenario evolverà, solo alcune osservazioni.



Innanzitutto c’è il rischio di caricare l’università, unica depositaria, di compiti che non si armonizzano con la sua funzione di ricerca e formazione accademica. Il sapere “insegnato” non coincide con l’approfondimento scientifico delle lauree magistrali, e richiede una capacità di sintesi e di visione complessiva della materia per orientarla ai suoi fini educativi: di questo si parla sempre meno, dopo il sostanziale fallimento della teoria dei “nuclei fondanti”, che troppo avevano a che fare con il canone e la quantità dei contenuti, e troppo poco con l’orientamento dei contenuti a seconda degli obiettivi da conseguire. Buon interlocutore su questi temi potrebbero essere le associazioni professionali accreditate.



Secondariamente non convince molto l’idea che la valutazione sull’efficacia della formazione competa all’Anvur (che può valutare l’adeguatezza dei percorsi universitari, non le persone che lì si formano) con ciò relegando la scuola stessa a fruitrice passiva, mentre essa è una fucina di formazione implicita ed esplicita dei giovani insegnanti, specialmente se capitano in scuole dove la direzione è chiara, la sintonia interna è perseguita, la ricerca professionale è condivisa (ahimé, caratteristiche che dovrebbero essere obbligatorie in una scuola che funziona e invece bisogna essere molto fortunati per trovarle).

Infine, è noto che il fattore che più incide sulla qualità degli apprendimenti degli alunni è l’insegnante, al netto di altre variabili che pure incidono (per esempio lo stato socio-culturale della famiglia di provenienza), ma sulla natura delle sue competenze non c’è un orientamento condiviso. Da noi si discute ancora se l’insegnante abbia o no una funzione centrale: se possa essere sostituito da una figura neutra di coach, facilitatore, allenatore, a favore di un attivismo pedagogico per il quale lo studente si autoregola: quasi che l’insegnante debba giustificare il suo essere in classe. In ambiente anglosassone invece da anni si studia che cosa rende efficace l’insegnamento, e quali sono i comportamenti-insegnante più capaci di sostenere la motivazione e l’autostima degli studenti. Il grande tema delle competenze “non cognitive” può essere proposto innanzitutto in relazione agli insegnanti, che possono trasmettere messaggi positivi (capaci di sostenere il percorso dello studente) oppure anche inconsapevolmente negativi (destinati a inibirlo o a frustrarlo). In realtà proprio la guida efficace da parte dell’insegnante favorisce la crescita in autonomia dello studente (si vedano A. Calvani-R. Trinchero, Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene, e G. Biesta, Riscoprire l’insegnamento).

Chi è dunque il buon insegnante? Basta dire che è “entusiasta”, “appassionato alla propria materia”, “empatico”? Basta fondarsi sull’esperienza di corrispondenza che ogni insegnante di buona volontà già fa, prima ancora di riflettere sul proprio operato? Sarebbe bene non saltare i passaggi analitici accontentandosi di etichette sintetiche ma anche generiche, che non incidono quindi sulla formazione degli insegnanti. Per molti concetti alla base di esperienze vitali per l’uomo è necessaria una consapevolezza che entra nel merito e trae le conseguenze delle premesse.

Prendiamo il concetto di “bene comune”. Mi ha colpito la celebrazione dell’80mo anniversario, alla presenza del cardinal Zuppi, del Codice di Camaldoli del 1943: un gruppo di intellettuali cattolici si impegnò per dare contenuto all’idea di “bene comune”, fino a indicare strade originali per l’economia, l’educazione, l’amministrazione della giustizia, l’organizzazione della società, idee che diedero un contributo fondamentale alla ripresa dell’Italia nel dopoguerra. Del resto don Giussani, che ha promosso evidentemente una grandiosa esperienza dell’umano per chi lo ha seguito, aveva una consapevolezza culturale chiara dei fattori in gioco, tanto da consegnarci, tra l’altro, le tre famose premesse del senso religioso su realismo, ragionevolezza, implicazione affettiva: cioè un “quadro di riferimento” culturalmente fondato della proposta che andava facendo.

Nel caso dell’insegnante, ho avuto modo di approfondire l’anno passato alcune “competenze non cognitive”, tornate di attualità con l’approvazione alla Camera del disegno di legge il 3 agosto scorso. C’è un lavoro che si è cominciato a fare, anche con il corso Potenziare le competenze personali degli studenti promosso da Diesse (insieme a Fondazione per la Sussidiarietà e all’Associazione Il Rischio educativo, e in collaborazione con l’agenzia formativa internazionale Sanoma), per identificare analiticamente le competenze degli insegnanti (per es. apertura mentale, motivazione, empatia) che influiscono positivamente sulle competenze personali degli studenti: per esempio il feedback che l’insegnante dà a ciascuno studente durante il percorso, o l’idea stessa che l’anno scolastico sia un percorso in ordine di difficoltà in cui cresce una competenza specifica.

Secondo studi recenti esistono tre cluster di competenze per l’insegnante che voglia essere efficace con i propri studenti: il supporto personale, fatto di cura dell’altro e di coinvolgimento in un percorso condiviso; il supporto curricolare, che richiede chiarezza e attrattività della proposta, consolidamento continuo dei passi compiuti, coscienza critica di ciò che si insegna (in questo sono fondamentali le Botteghe dell’Insegnare dell’associazione Diesse); l’ambiente esigente, che impone un percorso sfidante, non routinario, e una gestione ordinata della classe. Ognuno di questi aspetti si può tradurre in pratiche virtuose. Queste “voci” sono state integrate in modo originale a partire dalla nostra esperienza con la capacità di immedesimarsi nel bisogno dell’altro, ma anche di dare una direzione certa al cammino. È quella che abbiamo chiamato autorevolezza empatica, una specie di ossimoro: in che cosa l’essere empatico è diverso dall’essere sullo stesso piano? Ma anche in che cosa essere autorevole è diverso dall’essere distante? Su queste cose sarebbe importante che gli insegnanti in formazione si misurassero, in teoria e in pratica.

Conviene poi, anche a chi già insegna, non dare per scontata una riflessione sulla propria funzione e su tutto quello che riguarda la scuola: è la ragione della scelta dei gruppi di lavoro alla prossima Convention Diesse 2023 su temi caldi come il tutoring, l’orientamento, la lotta alla dispersione, le classi difficili. Come la nostra esperienza di insegnanti, con tutto il suo contenuto culturale, interroga alcune sfide dell’oggi?

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