C’è un nuovo sistema di arruolamento dei docenti, lo ha definito il Parlamento con il decreto legge del 21 aprile, 70mila nuovi docenti entro il 2024: percorsi integrati fra scuola e università, differenti a seconda del numero di anni di precariato, concorsi solo al termine del percorso e corsia preferenziale per i precari storici.



I sindacati hanno manifestato il loro malumore per non essere stati coinvolti in tempo utile nelle decisioni. Le associazioni professionali hanno espresso una loro tiepida approvazione.

Si è trattato probabilmente dell’ennesimo tentativo di mediazione in un quadro politico in cui la maggioranza è costituita da forze politiche che rispetto al tema scuola (come ad altri, peraltro) hanno visioni enormemente differenti.



Fatta la norma, l’auspicio è che si riesca nella realtà a costruire una sinergia positiva ed efficace tra i sistemi; Siss e Tfa (i percorsi di avviamento alla professione docente promossi dalle università) avevano mostrato la possibilità di percorsi costruttivi, con qualche aggiustamento avrebbero potuto costituire la strada maestra per contribuire alla formazione di una professionalità docente solida. Si sarebbe dovuto potenziarne la struttura, verificare puntualmente la loro competenza valutativa e incrementare la relazione fra sistemi.

Si è voluto invece dare nuovo spazio allo strumento concorsuale: prova selettiva informatizzata e colloquio conclusivo. I risultati li stiamo vedendo: in un contesto di graduatorie esaurite, si è messa in moto una macchina mastodontica e improduttiva, che sta dimostrando tutta la sua inefficacia, eppure anche il decreto appena emanato sembra volerla conservare. Si continua a non voler accogliere le migliori pratiche straniere, non si vuole rinunciare a prassi obsolete.



Io stessa ho in questi mesi assistito impotente a procedure assolutamente anacronistiche, nonostante l’informatizzazione pervasiva. Molti istituti, anche quello che dirigo, sono diventati sedi delle prove selettive, laboratori didattici sacrificati alla macchina concorsuale, personale docente e non docente impegnato ad assicurare la regolarità delle procedure, dirigenti scolastici in testa.

Un modello davvero umiliante per l’intera categoria: assenti molti candidati, percentuali irrisorie di esiti positivi con conseguenti drammatiche delusioni coram populo, una macchina arrugginita, umiliante per tutti. Nozionismo puro, in cui di non cognitive skills non c’è traccia.

Ma non è questo il peggio: il peggio è rappresentato dalla percezione che la realtà scolastica, le competenze, le professionalità riconosciute da genitori e soprattutto dagli studenti, i veri protagonisti dell’azione formativa, non abbiano alcun peso nella selezione, men che meno l’eventuale giudizio del dirigente delle scuole in cui i docenti prestano servizio, totalmente escluso da qualsiasi funzione valutativa.

Anche il nuovo decreto per la verità attribuisce al Comitato di valutazione, presieduto dal dirigente scolastico, la responsabilità di confermare il percorso di arruolamento, ma conosciamo la debolezza di questa procedura, che viene collocata solo alla conclusione dell’iter.

Chiamato quotidianamente a render conto all’amministrazione, al personale, ma soprattutto ai ragazzi e alle famiglie dell’efficacia dell’azione culturale e formativa, il dirigente scolastico guarda smarrito a questa misteriosa cabala.

Un dirigente competente sa chi sono i buoni insegnanti, ma continua a non avere alcuna voce in capitolo nella scelta.

Chi scrive, per esempio, nella propria scuola, ha incontrato molti giovani con le giuste caratteristiche, eppure quasi tutti bocciati attraverso le batterie dei recenti concorsi: è ragionevole tutto ciò?

Davvero umiliante per questi giovani (e meno giovani) continuare a lavorare con la “patente” dell’insuccesso stampata sulla fronte, che anacronistica mortificazione, che dispiacere per i loro alunni che ne hanno apprezzato la preparazione, ma che non li troveranno in cattedra il prossimo anno.

Troviamo metodi di selezione più efficaci. Si tratta di una priorità di emergenza nazionale. Modelli stranieri e proposte pervenute dai master promossi per lo sviluppo della leadership scolastica offrono un’ampia gamma di modelli di selezione, anche in questa occasione, trascurati. Lo ripetiamo ancora una volta: il buon insegnante è innanzitutto chi desidera spendere la propria professionalità con e per i giovani, bambini o adolescenti che siano.

Il buon insegnante è innamorato delle discipline che insegna, desidera approfondirle, desidera proporle ai più giovani, perché persuaso che attraverso di esse, la realtà, nella sua complessità, possa essere più comprensibile e affascinante.

Il buon insegnante sa scegliere i contenuti essenziali della disciplina, li sa mettere in contatto con le altre discipline, ma desidera anche paragonarle continuamente con la realtà.

Il buon insegnante sa valutare con trasparenza ed equità, il buon insegnante si aggiorna costantemente, non per meri obblighi burocratici, ma perché, come ogni bravo ricercatore, conserva un infinito desiderio di conoscenza.

Il buon insegnante sa che la cultura ha costantemente bisogno di relazioni, di contatti, pertanto non si chiude nel proprio sapere, ma è disponibile a lavorare in maniera appassionata con i colleghi.

Il buon insegnante vive con responsabilità il proprio presente ed è quindi disponibile a confrontarsi con i nuovi bisogni, con la dimensione interculturale, con le difficoltà nell’apprendimento, con le nuove fragilità, senza scandalizzarsi per i propri e altrui limiti, ma desideroso di orientare la propria fatica quotidiana a far incontrare ai più giovani la strada meravigliosa della conoscenza e contemporaneamente a rendere conto del proprio lavoro.

Si tratta di doti raffinate, alcune acquisibili, ma per lo più innate, ars e ingenium direbbe Cicerone, doti per una professione appassionante, ma anche molto impegnativa, a cui guardare almeno con la stessa stima di altre “alte” professionalità e con risorse adeguate.

Difficile che con le attuali condizioni i migliori laureati (soprattutto nelle discipline scientifiche e tecniche) si sottopongano a prove dagli esiti così casuali, senza alcuna prospettiva di carriera e con un contesto sociale e mediatico così ostile.

Di fronte al tentativo, pur imperfetto, di costruire un modello di arruolamento e di sviluppo professionale più persuasivo, che non valorizzi per esempio la sola anzianità di carriera, si è di nuovo gridato allo scandalo, si teme di nuovo che il preside manager assuma ruoli censori, torna a risuonare il ritornello della libertà di insegnamento totalmente autoreferenziale. Ma quale professionista non rende conto ai superiori e ai fruitori dei propri servizi dell’esito del proprio impegno?

Auspichiamo, in realtà, che si accostino a questa straordinaria professione i migliori laureati che ne abbiano le caratteristiche e che soprattutto possano incontrare, come in ogni professione che si rispetti, maestri, tutor, figure senior che possano contribuire seriamente alla loro formazione. Figure di professionisti che vengano dalla scuola e non dall’università, lontanissima dalla quotidiana emergenza che si incontra nelle aule.

Non siamo sicuri che il decreto appena approvato costituisca la migliore soluzione. Forse è comunque la migliore attualmente percorribile. Speriamoci.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI