Il decreto legge n. 36, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 aprile scorso, disciplina, dall’art. 44 all’art. 47, la questione della formazione iniziale dei docenti e del loro reclutamento. La norma muove dal riconoscimento che la professionalità di un insegnante non possa consistere nella sola preparazione disciplinare, cioè nella conoscenza della materia che egli si propone di insegnare, ma che richieda anche specifiche conoscenze di natura psico-pedagogica e didattica e soprattutto la capacità di impiegare queste ultime efficacemente nelle lezioni.
Il presupposto non è di poco conto, considerato che tutt’oggi molti docenti tengono lezione nello stesso modo che adottavano i loro insegnanti, quando cioè essi erano ancora alunni. Il tasso di riproduzione delle modalità tradizionali d’insegnamento è tutt’oggi molto forte in Italia e il pregiudizio che la sola conoscenza di una materia sia sufficiente a sviluppare la capacità d’insegnare è ben radicato. La conoscenza, infatti, che è certamente imprescindibile, non può ritenersi esaustiva in sé per la professionalità docente, senza il supporto delle tecniche didattiche. Quindi il presupposto per i cambiamenti in merito alla formazione iniziale e al reclutamento è condivisibile.
Si rilancia anche il tema della formazione in servizio, che era già stato affrontato con nettezza dalla legge cosiddetta della Buona Scuola (legge 107/2015). Il comma 124 dell’art. 1, infatti, affermava che essa sarebbe dovuta essere obbligatoria, permanente e strutturale, ma successivamente tali definizioni normative sono state “svuotate” di significato, mediante l’affidamento ai collegi dei docenti della quantificazione delle ore per la formazione stessa. Ovviamente i sindacati, che si sono opposti alla legge della Buona Scuola fin dal suo atto di nascita, hanno avuto buon gioco a eludere un tale obbligo, grazie alle modeste quantità orarie deliberate dai collegi dei docenti. Adesso, con il decreto pubblicato recentemente, la formazione in servizio dei docenti, sempre definita come continua e strutturata, pare tornare in auge e viene finalizzata a favorire l’innovazione dei modelli didattici, particolarmente alla luce dell’esperienza maturata durante l’emergenza sanitaria.
Una parte di essa, quella sulle competenze digitali e sul loro uso critico, sarà obbligatoria per tutti e si svolgerà nell’ambito dell’orario lavorativo, ma si introduce anche un sistema di aggiornamento e formazione, sempre finalizzato alla progettazione didattica innovativa, che sarà svolto esternamente all’orario di lavoro. In questa prospettiva, sarà previsto anche un incentivo stipendiale.
Si pongono, infine, le basi per una Scuola di Alta Formazione che adotterà specifiche linee di indirizzo e accrediterà le strutture erogatrici dei corsi, per garantirne la qualità. Le sue attività saranno destinate anche ai dirigenti e al personale.
Dunque ci sono varie novità, la cui consistenza, tuttavia, emergerà solo in fase attuativa, perché come è noto le regole d’implementazione, spesso definite di concerto con i sindacati, riescono ad attenuare o eludere i cambiamenti più importanti. In particolare, la fase transitoria che viene prefigurata corre il rischio, come è avvenuto in altri casi, di trasformarsi in definitiva, in ossequio all’aforisma di Flaiano per il quale “nulla è più definitivo del provvisorio”. La transitorietà sarà più difficile da superare se essa consentirà il mantenimento di vantaggi per alcuni soggetti.
Soprattutto non si intravede con chiarezza come la professionalità docente debba essere misurata concretamente nel contesto dell’esperienza reale d’insegnamento, rispetto alla quale dovrebbero essere indicati gli strumenti di misurazione e le istituzioni atte a valutarla. Neppure si vede profilarsi all’orizzonte la definizione di una carriera, che possa valorizzare le alte professionalità che lavorano a scuola. Queste ultime, infatti, spesso svolgono funzioni fondamentali di supporto al sistema scolastico: come potremo far sì che esse continuino a mantenersi nel tempo?
Molti di quei docenti, indispensabili alle scuole, ne ricavano magri compensi economici e riconoscimenti ancora più esigui sul piano morale. Lo Stato, infatti, si ostina a mantenere un frustrante e irrealistico egualitarismo, che ignora le profonde differenze tra chi lavora dando l’anima e chi, invece, si accontenta del minimo.
Soprattutto si ignora ciò che è stato fatto da quei docenti (unitamente ai dirigenti scolastici) nel periodo della pandemia. Molti di loro, che nei momenti più difficili hanno offerto un impegno ininterrotto, anche a costo di sacrifici personali, oggi si tirano indietro e vivono con delusione lo stato attuale. Fatte le debite differenze, pare quasi che si riproponga il mito della “vittoria mutilata”, che si era diffuso tra i reduci della Grande guerra, i quali avevano rischiato la vita e combattuto senza sosta nelle trincee, per poi tornare ai problemi di sempre, aggravati dalla crisi economica postbellica.
La definizione di una carriera docente, tuttavia, rappresenterebbe un passo di natura meritocratica avverso il quale i sindacati della scuola non esiterebbero a scatenare la loro mobilitazione. Il merito, suggerirebbe l’amico Roger Abravanel, continua a far paura.
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