Nemmeno lo sceneggiatore della saga americana di Fast and furious potrebbe tenere il passo con la road-map della riforme che il Governo Draghi si appresta a varare per il mondo della scuola dopo anni di pantano. In un contributo di oltre 10 anni fa, Riccardo Scaglioni lamentava: “È doloroso ritrovarsi qui a parlare di nuovo, dopo anni di proposte, controproposte, sperimentazioni e smantellamenti, di formazione iniziale degli insegnanti in termini di parzialità e incompiutezza”.

Cosa è cambiato nel nostro Paese, a parte gli acronimi dei partiti politici che siedono in un Parlamento che sarà decimato di un terzo alla prossima tornata elettorale? Il ministro Bianchi ha annunciato, tra le varie proposte di una scuola “affettuosa”, anche un percorso più strutturato per la formazione iniziale degli insegnanti, che è stata decisa per decreto-legge, avendo, secondo il dettato della nostra Costituzione, carattere “di urgenza ed emergenza”. È sicuramente così, anche se i tempi previsti per la discussione in Parlamento, ovvero 60 giorni, sono compressi e “stretti” per un a riforma che dovrebbe porre fine al pullulare di acronimi che cambiano ad ogni Governo: Ssis, Tfa, Pas, Fit, Cfu24… Ognuno di essi porta con sé confusione, per tacere poi dei concorsi ordinari più recenti che hanno suscitato polemiche.

È bene ricordare brevemente come funziona il nuovo iter di formazione e accesso al ruolo, che prevede:

1) un percorso universitario e accademico abilitante di formazione iniziale con prova finale, corrispondente a non meno di 60 crediti formativi universitari o accademici (Cfu/Cfa), nel quale sono acquisite dagli aspiranti docenti competenze teorico-pratiche-metodologiche-pedagogiche;

2) un concorso pubblico nazionale, indetto su base regionale o interregionale;

3) un periodo di prova in servizio di durata annuale con test finale e valutazione conclusiva.

In questa articolazione che ha suscitato l’“ira” dei sindacati e la perplessità degli addetti ai lavori, soffermiamoci sull’articolo 2-bis, comma 6, in cui sono previste, nei percorsi universitari e accademici di formazione iniziale, “attività di tutoraggio alle quali vengono preposti docenti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado”, senza oneri aggiuntivi per l’erario pubblico. E dove si trovano i soldi per pagare i tutor, ovvero docenti esperti, che seguiranno, come se fossero a bottega, i docenti da formare?

La soluzione trovata al momento è la riduzione delle risorse di cui all’articolo 1, comma 123 della legge n. 107/2015 ovvero i 500 euro dati dal Governo Renzi con la “Buona Scuola”: si tratta della cosiddetta Carta dei docenti. Ora chi dovrà essere il tutor, ovvero insegnante della scuola secondaria di primo e secondo grado, per gli aspiranti docenti da formare, il quale potrà essere esonerato dall’insegnamento per dedicarsi a questa attività in modo esclusivo? Si è, come di consueto, in attesa di un apposito decreto interministeriale che definirà il contingente dei tutor, la ripartizione del contingente tra le università e le istituzioni Afam, i criteri di selezione degli aspiranti tutor, i quali saranno esonerati dall’insegnamento e quindi sostituiti da supplenti annuali.

La discussione sulla selezione dei formatori, come suggerisce il buon senso, dovrebbe avvenire in base ai principi della competenza dell’expertise delle didattiche disciplinari e dei laboratori didattici; rimane essenziale possedere naturalmente il titolo di abilitazione all’insegnamento nell’ambito disciplinare corrispondente, una significativa permanenza in servizio effettivo nella scuola, altri titoli che documentino significative esperienze di ricerca didattica, pubblicazioni su tematiche inerenti la disciplina in riviste professionali e accademiche, esperienze di aggiornamento e formazione di docenti in servizio. Così si potrà “legittimare” il ruolo del docente di didattica e di laboratorio.

Per ottenere ciò, tuttavia, occorre fare un salto di qualità: al fine di valorizzare al massimo la competenza e professionalità di docenti in servizio di “acclarata” propensione accompagnata ad un approccio di ricerca e sperimentazione, occorre che l’università fornisca un chiaro segno di maturità nella volontà di fare un passo indietro e dare spazio a chi proviene nel mondo della scuola. Si pensi, ad esempio, che, attualmente, molte insegnamenti di didattica disciplinare, nel percorso delle lauree magistrali, sono affidati a professori accademici che non hanno mai messo piede in una classe reale, raramente hanno svolto ricerca e ricerca-azione in campo didattico-pedagogico della disciplina, pubblicando manuali o articoli.

Inoltre, molti di questi, se sono chiamati a fare convegni rivolti a docenti, parlano di temi che assai raramente sono spendibili in classe per gli alunni, ma nei fatti costituiscono un approfondimento divulgativo per gli addetti ai lavori – i docenti – che vengono certamente culturalmente stimolati, ma che poi hanno difficoltà nel tradurli in atti didattici per gli alunni. Qualcuno dirà che è questa la loro sfida, anzi il loro mestiere. Ma il grado di approfondimento è talmente elevato e specifico che questo è poco probabile. Chi fa aggiornamento ai docenti in servizio deve dire anche come e non solo che cosa o perché: altrimenti pontifica, non aggiorna e non forma; il che è un atteggiamento accademico che si rischia di replicare nei nuovi percorsi di formazione iniziale per i docenti, prossimi al varo.

In che modo si debba articolare il rapporto tra università e scuola, dopo la quasi decennale esperienza delle Ssis e del biennio del Tfa, rimane questione aperta, e come andrà a finire lo vedrà nel delineare ruolo e funzione del docente-tutor.