La Convention annuale dell’associazione di insegnanti di Diesse, appena conclusa con la partecipazione in presenza di oltre trecento aderenti, è partita prendendo di petto la questione dei ragazzi. Titolo: Questi ragazzi! Fragili ma ostinati desideri di felicità. Un breve video genialmente girato da alcuni giovani ha focalizzato le domande che gli alunni si fanno ogni mattina quando varcano i cancelli dei propri istituti: la scuola è un mezzo o un fine? La scuola può essere un ambito di rapporti tra persone o valgono solo i voti? È possibile che gli insegnanti, benché oppressi talvolta dalle incombenze, trasmettano un senso e una passione per la realtà attraverso ciò che insegnano?
Un primo macro tema dell’assemblea ha dunque riguardato il rapporto tra ansia e felicità: l’ambiente nel quale si consuma gran parte della esistenza giovanile è infatti un luogo che oggi sempre di più assomiglia ad un ospedale da campo che si occupa di sedare o estirpare le domande più brucianti e dolorose che i ragazzi si fanno. Eppure una certa sana inquietudine che la natura ci ha messo addosso tutte le volte che affrontiamo un percorso nuovo è il punto di partenza per lavorare su certe fragilità che non rispecchiano altro che la nostra condizione esistenziale di esseri umani limitati che cercano l’infinito e il trascendente.
Questo percorso è stato bene focalizzato dalle relazioni introduttive, che hanno evidenziato come non si debba scambiare la felicità con un prodotto commerciale che si può comprare, con un oggetto di consumo alla moda che la pubblicità ha trasformato in una merce insulsa e “tossica”, divenuta alienante e poco interessante agli occhi di quello stesso universo giovanile che di felicità sarebbe assetato. E lo è, in effetti. È solo il suo significato che oggi è cambiato. La felicità, è stato detto (Mencarelli, scrittore), è piuttosto l’attesa di veri maestri (insegnanti adulti) capaci di fare breccia dentro vite apparentemente ripiegate su sé stesse, ma in realtà capaci di afferrare la sintesi dei discorsi che vengono loro proposti e di rifiutare quella sorta di penosa riduzione, operata dalla cultura dominante, del bisogno umano a patologia.
Più che un sanatorio la scuola deve essere avvertita come “luogo di frontiera” (Pediconi, psicoanalista), al quale, magari nell’incomprensione generale, è affidato il compito di sviluppare la civiltà, cioè la mediazione tra il vecchio che abbiamo alle spalle e il nuovo che ci attende. Affinché questo livello trasmissivo sia assicurato, la scuola a tutti i livelli della sua essenza dinamica deve essere messa in mano ai soggetti che la fanno (studenti, insegnanti, famiglie, dirigenti e personale amministrativo e ausiliario), nella certezza che non si introduce alla realtà sempre nuova del presente se non si fa perno su una ipotesi di significato globale dell’esistenza.
Come infatti sentenziava niente meno che Freud (citato a sorpresa in nesso con i testi di don Giussani che si occupano del rischio di educare), è difficile separare la scienza da chi la propone, per cui la via della conoscenza passa inevitabilmente per la persona dell’insegnante (Psicologia del ginnasiale, 1914).
Un secondo enorme e attualissimo macro tema affrontato nell’introduzione e durante tutto lo svolgimento della Convention è stato quello dell’innovazione digitale (Gui, sociologo). Poteva non essere al centro dell’attenzione questo nodo che segna il passaggio epocale al quale assistiamo? Come si giustificano gli impegni di spesa del governo nazionale in questo settore e, soprattutto, a quale tipo di bisogno corrisponde la digitalizzazione? Se n’è discusso in modo appassionato nei vari gruppi di lavoro differenziati per gradi di scuola e nei dialoghi interpersonali. Si è osservato che le competenze digitali sono aumentate negli alunni e tra i docenti, e questo è positivo, accanto tuttavia a fenomeni preoccupanti tra i ragazzi, come taluni disturbi di carattere fisico e il non elevato aumento dei livelli di apprendimento.
A proposito, comunque, della prospettiva, praticata in certe scuole, di ripensare l’uso dei media utilizzando i cosiddetti “patti digitali” che comportano una frenata nell’impiego dei vari strumenti tecnologici, il pubblico della Convention si è diviso tra favorevoli e dubbiosi. Sta di fatto che la realtà procede veloce in una certa direzione e restarne fuori sarebbe un errore. Meglio chiedersi piuttosto a quali bisogni reali corrisponde la digitalizzazione e a quali bisogni non corrisponde. È in chiave critica, insomma, che deve essere affrontato l’intero capitolo, e non evocando inutili paure o utopiche speranze di rigenerazione della didattica tramite la sua traduzione digitale. Perché in fondo è sempre l’uomo che banalmente muove la macchina ed è il docente, in questo caso meno banalmente, che può contribuire a creare e modificare il contesto in cui ci si trova a insegnare. A chi compete infatti la lettura del bisogno dell’altro, più giovane e in fase educativa, se non all’insegnante?
Ecco qui individuato un preciso compito che la professionalità docente è chiamata a sbrogliare in questo particolare frangente storico: avere uno sguardo tale sul contesto entro il quale si esercita il proprio mandato comunicativo, da potersi assumere in collaborazione con altri (colleghi e genitori) la responsabilità di plasmare le situazioni di lavoro in modo che emerga tutta la positività della relazione con l’alunno, anziché il negativo da espungere dopo averlo indicato e selezionato. Assumersi la responsabilità del contesto, oggi significa tante cose: insegnamento adeguato, organizzazione della didattica, orientamento degli alunni, valutazione delle competenze. Il tutto, sia ben chiaro, è stato precisamente sottolineato nei vari workshop in cui si sono articolate le assise di Diesse, a partire da una comprensione di sé da parte dell’insegnante che opera in una situazione sempre problematica e che per questo non può agire da solo (a rischio di affogare nella propria solitudine).
Certo, la didattica orientativa di cui oggi tanto si sbandiera la improrogabilità è come la scoperta dell’acqua calda, perché è attraverso ciò che si insegna che si introduce l’alunno alla realtà globale. Dunque insegnare come dice la parola stessa significa orientare. E orientare vorrà dire prendersi cura dell’altro e della sua attenzione verso ciò che accade nella classe. Quindi orientare sì, a patto che sia un percorso e non un giudizio condizionante l’intero iter scolastico del ragazzo. Ma è bene non dimenticare, in ultima istanza, che le parole (nello specifico “orientamento”, “digitalizzazione”, “innovazione”) possono diventare le parole d’ordine di una nuova ideologia calata dall’alto sulle coscienze, anziché patrimonio lessicale che nasce dall’esperienza.
Un altro macro tema preso in considerazione è stato quindi, a quest’ultimo proposito, il tema del linguaggio che si adopera nella scuola. Il lavoro sulle parole (Nicoli) è fondamentale da parte di chi, per professione, usa fondamentalmente parole (che si traducono poi in gesti) per trasmettere e comunicare il sapere ai propri alunni. È importante nelle aule e nei vari luoghi della collegialità docente porre attenzione, è stato più volte ripetuto, a come si parla “degli” alunni e a come si parla “con” gli alunni. Non tanto per edulcorare, impoverire e ridurre ulteriormente un vocabolario a volte già scarno, ma al contrario per fare emergere la verità delle situazioni in cui si articola l’incontro tra una figura adulta assimilabile in qualche modo alla figura paterna (senza cadere nel paternalismo) e i suoi scolari, che diventano figli se il dialogo è appunto nella verità e non nella menzogna delle affrettate procedure e delle talora inutili pratiche burocratiche.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.