“Sono libero!” ululò il ragazzo uscendo dall’aula della maturità. È solo l’ultima di una foresta di idiozie: se non puoi pensare “sono libero!” mentre entri, e mentre prepari l’esame, che razza di libertà è?
C’è da compatirti, non te l’ha insegnato nessuno, essendo ciascuno “in tutt’altre faccende affaccendato”.
Il colloquio orale prende avvio dalle cosiddette “domande stimolo”: le quali generano, infatti, istantanei effetti lassativi. Uno dopo l’altro, gli studenti si siedono e, quasi per reazione alla tuttologia che da loro si pretendeva, si svuotano dei pochissimi argomenti a malapena trattenuti nella memoria. La storia dell’umanità dev’essersi conclusa nel 1945, l’URSS pare saldamente unita. Più sciorinano la litania e più nel cervello si fissa una canzone di Rino Gaetano: “la banalità del male”, nuntereggae più / “I limoni di Montale”, nuntereggae più / “l’eterno ritorno dell’uguale”: nuntereggae più.
Neanche l’ultima ora dell’ultimo giorno dell’ultimo anno è il momento opportuno perché si sveli qualcosa di personale. Tutto è prestabilito: decisi ab aeterno i nodi concettuali, concordati i collegamenti, svelata sottobanco la domanda stimolo (benché i commissari esterni escludano una simile bassezza, come se mai fossero stati interni, e sbarcassero or ora dall’iperuranio).
La clonazione, più che un argomento di scienze, è una condizione esistenziale: gli studenti ripetono le frasette che gli insegnanti vogliono sentirsi dire, ed essi, per riflesso condizionato, annuiscono; se invece azzardano una parola fuori dal programma, si innervosiscono.
Studente: “Quintiliano scrive che per imparare è necessario l’interesse”.
Commissario irrigidito: “E allora il dovere? eh?!”.
Chissà come sono riusciti, da un fronte e dall’altro, a disinnescare opere tragiche come l’Urlo di Munch o 1984 di Orwell, riducendole a concettucoli condivisibili, che non spaventano.
Ogni nozione nasce morta. La scuola appare l’unico posto (speriamo sia l’unico) in cui, quando un ragazzo pronuncia una frase vera, anziché fargli una domanda vera o ammutolire, si chiosa: “Benissimo, passiamo ad altro”. Se anche uno dicesse: “È morto mio padre”, gli si risponderebbe: “Benissimo, passiamo ad altro”.
Il rito presuppone la bignamizzazione di qualsiasi argomento.
Studente: “Pirandello dice che ‘non sa di nomi, la vita’, cioè che noi intrappoliamo le cose in una parola”.
Commissario: “Benissimo, il relativismo”.
Crollo della libido.
Mentre s’allarga l’interminabile stagno di retorica, improvvisamente, un’onda anomala: qualcuno, alla faccia del format, prova a essere se stesso. C’è un ragazzo che pensa, brucia di domande, gli brillano gli occhi, cerca lo sguardo degli insegnanti. Dietro di lui l’aula, generalmente semideserta, si è popolata. Chi sono quei venticinque amici tutti attenti?
La commissione lo ignora, ma le parole di quel ragazzo c’entrano con gli amici alle sue spalle: se non ci fossero gli uni non ci sarebbero le altre, perché quelle parole sono nate con quegli amici e quei ragazzi si sono scoperti amici parlando di quelle cose. Esistono posti, su questa terra, in cui ci si confronta, si aprono prospettive, si ribaltano idee, ci si aiuta a studiare, addirittura a vivere. Giusto il giorno prima sono stati insieme al concerto di Vasco. Chi se li aspettava, puntuali alle 8, quelli che sono andati a letto “la mattina presto” e si sono svegliati “con il mal di testa”?
Di solito, latitano perfino i compagni di mille avventure: perché non ci crede nessuno, alla farsa che va in scena. Al massimo qualche parente, che ascolta compiaciuto con i famosi fiori in mano: “avete visto quant’è bravo?”. Tradotto: “come ripete ammaestrato”.
Senza alcun preavviso, una ragazza tira fuori un’intuizione talmente vera che le salgono le lacrime agli occhi.
“Calmati, stai andando bene, non ti agitare”.
L’intuizione talmente vera non se la ricorda nessuno.
Eserciti di fazzoletti a tamponare il fattaccio.
Il colloquio termina, le porte si chiudono: ci si diletta in psicologia spicciola, odiosa. Tre secondi dopo c’è chi chiacchiera di ricette e di creme per le smagliature, come se nulla fosse mai accaduto.
Non si sfugge all’etichetta: o sei bravo o sei polemico o sei lesbica; mai un dubbio o un desiderio di rincontrarlo.
Alla fine della giostra non ci si porta a casa mezza scoperta in più, né di fisica né d’inglese, men che meno su se stessi o sul ragazzo su cui si sentenzia e di cui si ignora tutto, se sia orfano o innamorato, se abbia pensato a lasciare la scuola o questo mondo, se dipinge o se sta diventando se stesso.
“Cosa vuoi fare dopo?”.
Una ragazza dirotta coraggiosamente la risposta, neanche le avessero chiesto “chi sei tu?”. Confessa che una frase inserita nella traccia di matematica (“All’inizio e alla fine abbiamo il mistero. A questo mistero la matematica ci avvicina, senza penetrarlo”) è quello che l’ha sempre affascinata nei numeri, ma non avrebbe saputo esprimerlo così precisamente. Trattiene il fiato…
Il presidente trancia la commozione augurandole tutto il bene possibile per il futuro.
L’augurio è ovviamente un guscio vuoto di cicala, tra miliardi di gusci vuoti. Non mi si dica che il giorno dopo se lo ricorderà, cosa ha detto, a chi l’ha detto, come si chiamava, che faccia aveva.
Noi ti auguriamo, ma non ti ascoltiamo.
Le lacrime vengono catalogate alla voce “agitazione”. Esclusa l’ipotesi della verità che tocca il cuore.
Oltre a non distinguere la commozione dall’agitazione, gli insegnanti non distinguono un ripetitore da un’intelligenza critica.
A volte qualcuno poggia sul tavolo oggetti illeciti, destando sospetti.
Presidente (sollevando dalla sedia chiappe e sopracciglio): “Cos’è quella roba?”.
Studentessa: “È solo un libro di Montale”.
Perplessità collettiva, brusii.
Se uno si presenta armato di libri e prova a raccontare qualcosa a parole sue, quindi imperfette, passa per uno sbruffone (ma l’altro giorno non vi era tanto piaciuta la traccia della Montalcini sull’imperfezione?); chi blatera il discorso imparaticcio viene apprezzato.
Davvero, colleghi, non vedete la differenza tra questi due?
Non la vedono, anzi, la vedono al contrario.
Domanda comunque inopportuna, che ruba mezzo minuto prezioso. Universalmente si ha fretta di chiudere. Non è immaginabile che qualcuno, anziché spicciarsi, voglia essere ascoltato.
I cinque ragazzi che ogni mattina fanno gli orali non vengono contati dal primo al quinto, ma alla rovescia: “bene, il primo ce lo siamo tolti”. Arriva la terza, percepita come terzultima. Si discetta del nodo concettuale “Tempo e spazio”. Sono le 11, è tardi, deve concludere. “È troppo tardi, ma è presto se tu te ne vai”.
“Hai finito” dice il presidente.
“Non ti vedrò più” penso io.
Senza un’ombra di malinconia, nelle segrete stanze l’umiliante contrabbando di un centesimo di punto in più.
Figlio mio, perdonami se al buffet non ho sgomitato per garantirti il piattino pieno. Comunque fidati, non era granché: c’è di meglio che vincere un 79 o un 80. Non ho da darti un punto in più, casomai un’ora in più. Non ho da dirti “puoi andare”, ma “ci vediamo domani?”.
Chi sei tu, che qualche incertezza o strafottenza o amicizia ha salvato dalla fogna della bravura? E chi sono i tuoi amici? Come ti è venuto in mente di scrostare le pareti del rito? Dove hai imparato a essere libero senza aspettare che la vita vada in pausa? Dove è cresciuto il coraggio di dire “io”? Forse proprio dicendo “noi”?
Non preoccuparti della bravura: è l’ansia di gente sola; senza un’amicizia vera, si rimane schiavi del paragrafetto e del voticino. Il problema non è il mazzo di fiori, ma il seme, e il terreno, in cui sbocciano ragazzi intelligenti e liberi.
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