“Vado in classe a fare un po’ di catechismo”. Le parole con cui la mia collega si congeda dai presenti in sala prof alla fine della ricreazione, mi sorprendono. Lei, infatti, insegna greco e latino. “Guarda – mi spiega – ho assegnato alla classe una versione dal greco di un brano del Vangelo di Marco, quello sulle Beatitudini. Ebbene, nessuno lo conosceva”. La conclusione che l’insegnante ne trae affonda le radici in un rapporto con alunni che non abbiamo in comune, ma che mi colpisce: “Volete contestare cristianesimo, il cattolicesimo? Fatelo pure, ma almeno dovreste conoscere ciò di cui parlate”.
Nativi digitali, inondati di informazioni, sempre connessi con comunità virtuali che escludono chi gli sta attorno nel momento presente, quale conoscenza ha la generazione Z del passato? Ma soprattutto, come avviene tale comprensione? In che misura le risposte dei Digital natives differiscono da quelle che potremmo rintracciare su Google? Ad esempio, sul significato di battezzare i bambini, recentemente riproposto in chiave violentemente anticattolica da Marco Bellocchio nel film Rapito. Battezzati, comunicati e confermati nella fase ancora pre-adolescenziale, cioè prima che si possa avere consapevolezza personale, profonda, del significato di quanto viene proposto; una volta giunti all’adolescenza, ai giovani della generazione Z manca la possibilità del vaglio critico di un’esperienza alla quale si sono, nel frattempo, già sottratti. Ma ciò riguarda solo gli aspetti legati alla sfera religiosa?
Non c’è tempo per approfondire, la ricreazione è finita.
Quello che la reazione della mia collega rivela, a ben guardare, non è tanto l’ignoranza di quanto sta alle radici della civiltà occidentale da duemila anni, ma una modalità di conoscenza del passato che non avviene più sulle fonti, né è efficacemente trasmessa dai genitori e neppure verificata attraverso l’esperienza personale. Allora da dove passa? Dallo schermo. Quello di un Pc, dello smartphone, di un cinema, attraverso i film o le serie tv.
E qui tutto dipende dall’onestà intellettuale del regista, che può raccontare fatti romanzati come si trattasse di storia, proporre affermazioni espresse nel contesto culturale di centocinquant’anni fa come se fossero state pronunciate l’altro ieri o, infine, tentare di comprendere quello che i protagonisti di quei fatti hanno espresso allora come coscienza di ciò che accadeva loro (ad esempio quella che emerge negli scritti di Edoardo Mortara, protagonista del film di Bellocchio) o liquidarne il valore nell’insignificanza solo perché collide con le proprie categorie di comprensione.
“Come è andata la lezione?” chiedo alla prof di greco all’inizio dell’ultimo collegio docenti.
“Uno di loro mi ha detto esplicitamente che la versione non lo aveva per nulla interessato”. “Ma – insisto per stare a ciò che mi ha incuriosito di più – secondo te, come accade la comprensione dei fatti storici da parte dei ragazzi?” “Loro sono disposti a fare proprio ciò che viene confezionato in maniera accattivante dai media, e questo, nel nostro caso, è più decisivo degli anni di catechismo o delle ore di religione a scuola”.
Cosa salverà dall’omologazione dei like l’antica abitudine a pensare che ha caratterizzato l’Europa? Serve un metodo di conoscenza che non sia imposto da un algoritmo, ma sia realmente adeguato all’oggetto da conoscere. Nella mia esperienza tale possibilità è coincisa con un incontro interessante e vivo avvenuto tra i banchi di scuola. Un incontro necessario anche ora, e non riguarda affatto solo le ultime generazioni.
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