Tempo di emergenza sanitaria: per le scuole un periodo difficilissimo, come pure per le famiglie e per i nostri figli. Eppure, nel marasma generale e nello scoramento che spesso ne consegue, ci sono tanti che si sono rimboccati le maniche e stanno lavorando per trasformare le difficoltà in opportunità. In molte scuole paritarie, in particolare, si sta inaspettatamente rivitalizzando quella alleanza educativa con i genitori da cui esse hanno avuto origine e tratto linfa, ma che poi, nel tempo, rischia di sbiadirsi per lasciare il posto al classico gioco delle parti istituzione-famiglia. È per evitare questo appiattimento che l’Istituto Tirinnanzi di Legnano ha appena inaugurato una “Scuola per genitori e insegnanti” con Luigi Ceriani (psicologo, psicoterapeuta, docente all’Università Cattolica di Milano), dal titolo “Dall’emergenza educativa all’educare nell’emergenza. La scuola tra presenza e distanza”, proprio per venire incontro alle richieste di aiuto giunte dalle famiglie. Ne abbiamo parlato con la professoressa Paola Balducci, coordinatrice didattica dell’Istituto.
Professoressa Balducci, come è nata l’idea del corso genitori: per una intuizione “astratta” o sono avvenuti fatti significativi che vi hanno spinto in questa direzione?
Non è la prima volta che offriamo ai genitori delle occasioni d’incontro, ma sempre a partire dall’iniziativa di chi guida le scuole. In questa circostanza, è accaduto un fatto nuovo: abbiamo risposto a una domanda dei genitori. Ho bene in mente il messaggio della mamma che per prima mi ha interpellato. “Ho bisogno di parlarle, sto facendo fatica, non riesco a sopportare la rassegnazione dipinta sul volto di mio figlio che ha 16 anni”. Dopo questa mamma, tanti altri genitori. In quell’occasione, ci siamo accorti che noi non avevamo risposte, che anche noi avevamo bisogno di aiuto e così, non a tavolino, ma in un dialogo continuo con i genitori, in particolare con i referenti delle classi, abbiamo deciso di dare vita ad una scuola in cui poter “imparare” insieme. Il dottor Ceriani, con cui il nostro istituto collabora da tempo, ci ha aiutato a costruire il percorso.
L’attuale emergenza sanitaria pare, quindi, spingere verso un cambiamento anche del rapporto con le famiglie. È così?
Sì, infatti è molto cambiato il rapporto con le famiglie. All’inizio, l’interruzione improvvisa di tutte le forme di incontro in presenza ci è sembrata una perdita così grave che non riuscivamo a immaginare un modo utile per non perdere quella buona e proficua familiarità con le famiglie che ha sempre contraddistinto le nostre scuole, ubicate in piccoli centri urbani. Anche in questo caso, è stata la realtà a guidarci.
In che modo?
Con l’avvio della Dad, siamo “entrati nelle loro case” e la relazione è diventata quotidiana. Una signora, madre di tre figli che frequentano le nostre scuole, durante la prima assemblea fatta a distanza ci ha detto: “Ovunque vada nella casa, voi siete con me. Fate lezione ai miei figli e compagnia a me. Grazie perché sono meno sola”. Oppure una signora, mamma di un’alunna della scuola primaria, che seguiva la preghiera del mattino, caricata ogni giorno sulla piattaforma, mi ha scritto: “Vi ringrazio per la preghiera quotidiana, mi aiuta ad alzarmi dal letto”. Potrei proseguire con molte altre storie, ma questi due esempi sono sufficienti a spiegare che la relazione con le famiglie, direi imprevedibilmente, si è intensificata; quando ci si vede non si parla più solo dei ragazzi e di come sta andando la scuola, ma si condivide la vita con le gioie e i dolori.
La scuola Tirinnanzi ha in questo senso una vocazione specifica? L’espressione “tirar grandi i figli”, presente nel vostro comunicato stampa, ha già in sé una assonanza con il nome della scuola…
Per rispondere occorre ripercorrere brevemente la nostra storia: l’Istituto Tirinnanzi prende il nome dal benefattore che ha finanziato la costruzione dell’edificio, che oggi ospita tre delle nostre quattro scuole. La prima scuola, avviata nel lontano 1982, è stata la scuola media; scelta più che comprensibile, se si considera che quello della scuola media è il momento in cui inizia la ribellione a tutto, inizia quel periodo che chiamiamo adolescenza, così prezioso per la crescita dei giovani, ma allo stesso tempo molto complicato proprio per le famiglie, ricco di contraddizioni. Dopo 5 anni, si è dato avvio alla prima scuola primaria dell’Istituto, seguita da lì a pochi anni da una seconda scuola primaria ubicata fuori Legnano. Infine, nel 2008, si è completato il percorso di studi con l’apertura del liceo scientifico. Le nostre scuole, insomma, sono nate per l’impeto di adulti, genitori e insegnanti, che grati e lieti per la pienezza di vita dell’esperienza cristiana che avevano incontrato, hanno considerato l’opportunità di non essere soli a darne testimonianza ai figli. Da quell’inizio sono accadute tante cose, ma il desiderio di chi fa le scuole oggi è lo stesso.
Qual è la necessità che vi pare più urgente in questo momento, tenendo conto di come i vostri studenti – piccoli e grandi – stanno vivendo la situazione attuale? Nel comunicato si dice, a un certo punto “Siamo chiamati a educare nell’emergenza e ad avere come prima preoccupazione che i nostri figli vedano come si vive e anche come si muore; occorre, attraverso l’esempio, indicare loro esperienze positive che sapranno sicuramente riconoscere”. Il “come si muore”, al di là della fatua spettacolarizzazione offerta da cinema e tv, è un aspetto – perlopiù censurato oggi – che in realtà è legato a doppio filo al “come si vive”: avete qualche testimonianza particolare da presentare ai vostri ragazzi su questo tema così fondamentale?
La risposta a questa domanda non è semplice, infatti le necessità cambiano molto, dalla primaria al liceo.
Ci spieghi.
I più piccoli, per esempio, ci hanno dato conferma che i bambini hanno bisogno di adulti certi da seguire. Nulla è per loro obiezione. Ci hanno stupiti fin dai primi giorni per la velocità con cui hanno imparato i nuovi comportamenti imposti dai protocolli in materia di contenimento del contagio. Ricordo precisamente quando durante una lezione, in una classe quinta, stavo afferrando il quaderno di uno di loro e ho sentito un coro di “Nooo, non hai igienizzato le mani!”. Continuano a stupirci per la gioia con cui ogni giorno varcano il cancello della scuola. La direttrice della primaria, per non perdere il dono di quel momento, li aspetta ogni giorno all’ingresso. In queste ore, con la chiusura delle scuole, vediamo la stessa letizia sugli occhi dei pochi alunni che hanno il previlegio di poter frequentare in presenza.
I ragazzini della scuola media?
Hanno bisogno di non essere lasciati soli, hanno bisogno di adulti a cui consegnare le loro inquietudini, in alcuni casi le loro paure. Come per i più piccoli, la riapertura delle scuole è stata un dono e hanno pianto quando hanno saputo che si stava di nuovo a casa.
E gli studenti del liceo?
Hanno bisogno di non essere lasciati tranquilli, nelle loro stanze, che in alcuni casi stanno diventando veri e propri nascondigli. Mi sembra che abbiano bisogno di adulti che, con discrezione e pazienza, continuino ad interpellarli, a convocarli. Hanno bisogno di sentirsi attesi.
Qualche esempio?
Una conferma, ad esempio, è stata quando a fine novembre, ai ragazzi del liceo abbiamo offerto l’opportunità di frequentare alcuni giorni in presenza, per le lezioni laboratoriali. Il giorno in cui è tornata la prima classe l’emozione era palpabile, la preside al centro del corridoio, i docenti ai lati e i ragazzi che salutavano entrando, increduli e sorpresi. Alcuni genitori ci hanno fatto sapere che molti di loro per quel rientro a scuola erano andanti dal parrucchiere. Agli appuntamenti importanti ci si presenta in ordine. Mi è sembrato un segnale da non trascurare.
E sul tema specifico della morte?
Per quanto riguarda il legame fra la vita e la morte, racconto un’esperienza. Lo scorso anno, mentre eravamo tutti a casa, ognuno a casa propria, ogni giorno, durante ogni collegamento, la prima domanda ai piccoli e ai grandi era sempre volta a verificare lo stato di salute dei loro familiari e delle persone a loro care. Un giorno, durante la preghiera del mattino, ho chiesto di pregare per alcune persone malate nominandole. Da lì, senza nessun progetto, senza averlo mai messo a tema, ho cominciato a ricevere mail di alunni e di genitori che mi invitavano ad aggiungere all’elenco delle persone per cui stavamo pregando, parenti, amici, colleghi e me ne indicavano il nome. Poi, dopo giorni, settimane o anche mesi, mi comunicavano l’avvenuta guarigione o ahimè la morte. La vita o la morte erano affidate.
Un’ultima domanda: come si coniugano, nel corso con il dottor Ceriani, l’approccio psicologico – che oggi, purtroppo, pare prendere spesso il sopravvento – con il carisma educativo che è all’origine della scuola Tirinnanzi?
Grazie per la domanda. Abbiamo chiesto al dottor Ceriani di accompagnarci in questa avventura proprio perché il suo approccio non è mai medicalizzante, anzi la sua posizione è di totale contrarietà a mettere etichette sui ragazzi. Il tentativo che abbiamo fatto insieme a lui, in questi anni, è volto a restituire alla scuola il compito di farsi carico di eventuali difficoltà, imparando a distinguere le difficoltà dai disturbi, la tristezza dal disagio. Ogni volta che ci confrontiamo con lui su casi specifici di ragazzi o famiglie in vera difficoltà, o quando definiamo i percorsi di sostegno ad alcune attività specifiche diverse per livelli (screening Dsa alla primaria, consulenza all’orientamento in uscita dalla scuola media verso la scuola superiore e dal liceo all’università), ci stupiamo perché sempre accade che la sua consulenza ci aiuta a riconoscere che la nostra ipotesi educativa è pertinente al bisogno più profondo di ogni persona che incontriamo. Tante volte al termine del colloquio di restituzione delle sue osservazioni, mi trovo a pensare: “Come abbiamo fatto a non vedere!”. Le situazioni che ci troviamo ad affrontare spesso sono così complesse che noi docenti ci lasciamo assalire dal timore di sbagliare approccio e abbiamo la necessità di condividere il nostro sguardo con qualcuno che sa vedere un po’ più in profondità.
(Marco Lepore)
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