Su Netflix è uscita una nuova serie che prende spunto dalla storia di Anna dai capelli rossi, Chiamatemi Anna. Durante la sigla dei singoli episodi compare una frase: “grandi idee devi poterle esprimere con grandi parole”. E se, come canta Ligabue, oggi avessimo perso le parole?
Guardando gli episodi di questa serie, che mi è stata suggerita da un’adolescente, accanita lettrice e curiosa della vita, mi chiedevo se non fosse un prodotto anacronistico, che non farà tendenza e soprattutto dedicato solo ai più intellettuali. Le singole puntate sono ricche e dense di descrizioni accurate, dal largo respiro e la protagonista affascina per un uso aulico della lingua, non solo per il contesto in cui è ambientata la serie, ma anche per il nostro quotidiano. È una cavalcata all’aria aperta per l’immaginazione. Potrebbe venire “skippata” (come usano dire nel gergo odierno i nostri ragazzi) poiché troppo difficile da comprendere o troppo poco “cool”?
Mi è capitato di incontrare recentemente dei docenti di un istituto professionale. Una di loro condivideva come fosse preoccupata per la mancanza di parole da parte dei suoi alunni. È stato dimostrato da recenti studi come purtroppo in Italia questo sia sintomo di analfabetismo di ritorno, di sempre minore capacità di comprensione di un testo scritto (noi italiani siamo ultimi in questo campo) e di conseguenza di una minore capacità di pensiero. “Se ho poche parole, penso poco” (U. Galimberti). L’ulteriore preoccupazione di fronte a questo quadro di certo non rassicurante è quella di accorgersi di come i nostri alunni, rispetto a quelli di qualche decade fa, non credano più che le parole possano fare la differenza. Avere a disposizione parole, non solo per crearsi un pensiero, ma pregne di senso e di significato era per molti la base, la scintilla, il motore rombante per contestare, per sognare, per combattere, per crescere.
Oggi lo svuotamento del vocabolario e del gusto profondo delle parole e per le parole sta togliendo forza e potenza a quei vocaboli che portavano inscritto un mondo valoriale a cui aspirare, che riempivano il cuore di sogni, di grandi vedute, di ampi e nuovi orizzonti, di nuovi mondi da creare o da immaginare. Se la parola non ha più peso, se sembra non portare più con sé l’importanza che prima aveva, che senso ha possederne molte? Jovanotti lo canta bene in una sua canzone degli esordi: “Se tutti i grandi libri qualcuno li ha già scritti / Se tutte le grandi frasi qualcuno le ha già dette / Se tutte le grandi canzoni le hanno già cantate / Mi chiedo ragazzi voi che cosa fate? / Perché siam qui a suonare a leggere e a studiare / Dovremmo essere in giro oppure al mare”.
Vale ancora, allora, essere uomini di parola? Si pensi, ad esempio, alla politica o al mondo del lavoro, ad ampio spettro, o alle nostre relazioni, nel nostro piccolo. Le parole hanno ancora pesi specifici? Ci sono ancora discorsi da leggere, rileggere, sottolineare, citare, impararne pezzi a memoria? Ha ancora valore dosare le parole? Viviamo in un mondo in realtà sovraffollato di parole, scritte e dette (si pensi ai social o ai vari infiniti talk show), eppure è come se fossero venute meno quelle che contano, quelle che danno senso, quelle che sembrava potessero fare la differenza o quelle che creavano immaginazione e pensiero.
Oggi la parola è diventata la nuova emergenza, farne riscoprire il gusto e l’essenza è una dei nuovi campi di battaglia educativi e come adulti spero non ci tireremo indietro, ma mi auguro raccoglieremo questo affascinante e provocante guanto di sfida per ridonare sostanza ai nostri pensieri e a quelli dei nostri giovani.
“Perché il linguaggio muore se non gli batte il cuore / Ciò che distingue un suono da un rumore / Non è la sua onda fisica ma è l’anima che ha dentro / Perché anche un suono vuoto è un suono spento” (Jovanotti, Parola).
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