Mi fermo al bar per un caffè e per un’occhiata al giornale. Al tavolino vicino quattro signori di mezz’età, distinti, bevono qualcosa e chiacchierano. Tanti sacrifici per mantenere i figli fino all’università e qualcuno fino al master di prestigio. Ed ora? Solo lavori precari e sottopagati. E umilianti: “A mio figlio hanno chiesto che si occupasse anche della rassegna stampa, alle sei del mattino… È tornato a casa avvilito”.



Finisco il mio caffè, esco e mi avvio verso l’appuntamento in programma. Ma quei signori mi tornano alla mente, come pure l’articolo che ho appena letto sui Neet: acronimo inglese che indica i giovani che non studiano e non lavorano: un fenomeno in crescita, tanto che si comincia a parlare di una “generazione perduta”.



Sì, una generazione di delusi e depressi, in una società che chiede ad un laureato di fare la gavetta e magari gli rinfaccia di non saper fare nulla di specifico.

La mente corre al mio primo impiego, tanti anni fa.

“Perito in energia nucleare”, recita il diploma che rigiro tra le mani e mostro a mio padre. Non può mantenermi all’università ma, a modo suo, mi dà la soluzione: “La laurea – dice – puoi prenderla lavorando e studiando contemporaneamente”.

È il 1963. Dopo dodici anni consecutivi di miracolo economico lo sviluppo del Paese ha una battuta d’arresto e poi un’inversione di tendenza: è la crisi, chiamata frettolosamente “congiuntura”, forse per evocare un che di accidentale, di coincidenze negative superabili in fretta. Ma non è così. Fino all’anno precedente i periti industriali dell’istituto che ho frequentato erano contesi dalle aziende di Milano. Io, invece, non sono cercato da nessuno né posso contare su raccomandazioni di sorta. Giro in bicicletta la città battendo a tappeto tutte le aziende possibili, ma non riesco neppure a superare l’ingresso: un commesso in divisa blu mi fa cenno di “no” con la mano, appena capisce che cerco lavoro.



Quindici giorni di porte in faccia, alimentate da quel diploma insolito: ma chi mai, in piena crisi, può aver bisogno di un fisico nucleare? Cambio strategia. Se il commesso me ne dà il tempo, dico d’un fiato: “Sono diplomato in elettronica. Che lei sappia, posso essere utile a questa società?”. Di elettronica ne ho studiata tanta. Mi sento in grado di sostenere un colloquio di lavoro e, comunque, non voglio arrendermi: mio padre dice che “perdere è un lusso che non tutti si possono permettere”.

Finché, un giorno, al posto del solito no, sento le parole tanto desiderate: “Salga quelle scale e chieda al commesso del piano di essere accompagnato dall’ing. Belli”. Mi ritrovo seduto di fronte ad un dirigente che mi guarda perplesso: “Quanti anni ha lei?”

“Diciotto, compiuti – preciso –, sono andato a scuola un anno prima…”.

L’ingegnere taglia corto: spalanca un grande foglio sulla scrivania e lo fa ruotare verso di me. Riconosco lo schema elettrico di un amplificatore ed espongo ciò che so con aria sicura. Un’ora di domande e risposte, interrotte bruscamente: “Basta così… e poi il resto lo imparerà da noi. Porti all’ufficio del personale i documenti per l’assunzione, e ovviamente il diploma”.

Cercando di minimizzare spiego, un po’ imbarazzato, che il mio è un titolo di studio “sperimentale”, dopo un corso a cavallo tra studi di elettronica e fisica nucleare. L’ingegner Bellini mi lascia parlare, poi scuote la testa: “Peccato, qui se la sarebbe cavata, ma siamo un gruppo di società che fa capo alla Edison, azienda troppo grande per essere flessibile: non posso assumerla”.

Non c’è, nelle sue parole, ombra di rimprovero per il sotterfugio ingenuo che avevo messo in campo. Anzi, mi guarda con simpatia: “Senta, le dicevo che siamo un gruppo di società. Una di queste ha in corso la costruzione della centrale di Trino Vercellese, per la produzione di energia elettrica da energia atomica. Ci saranno ancora un paio d’anni di cantiere: un esercito di muratori, elettricisti e saldatori. Ma ci sarà anche da caricare l’uranio, seguire le prime reazioni a catena, verificare gli impianti di sicurezza: un lavoro a turni, di giorno e di notte… un lavoro duro, ma interessante e adatto al suo titolo. Se se la sente, telefoni a nome mio al direttore”. Scarabocchia un numero su un foglietto e mi congeda con un sorriso di incoraggiamento.

Dopo una settimana, vengo assunto a Trino Vercellese, piccolo centro immerso nella nebbia, tra le risaie. La centrale è un edificio gigantesco di cemento grigio, a tre chilometri dal paese, che ogni volta raggiungo a piedi o con l’autostop. L’inverno si rivela freddo come nessuno del posto riesce a ricordare, ed io passo buona parte della giornata all’aperto, con casco antinfortunio ed eskimo, su e giù per scale metalliche. Controllo chilometri di tubature e valvole che porteranno acqua e vapore in pressione, dal reattore alle turbine. A poca distanza, corrono gli impianti elettrici e di controllo delle radiazioni. Dopo tre mesi iniziano i collaudi e, finalmente, mi assegnano il compito di stendere relazioni, analisi e grafici a margine delle prove. Ho una scrivania tutta per me e comunque l’inverno è finito. Dimentico in fretta il freddo patito e le mani intirizzite.

La centrale viene inaugurata più di due anni dopo, alla presenza delle autorità. L’amministratore delegato della Edison, ingegner Valerio, si dice fiero dell’opera, realizzata a tempi di record con soli tre incidenti mortali (!) sul lavoro, contro i sei/sette registrati in cantieri analoghi.

Anche per me è un giorno importante, perché compio ventun anni e divento maggiorenne (secondo le leggi vigenti). Finalmente posso firmare un contratto d’affitto o le cambiali per l’acquisto di un’utilitaria, senza dover convincere qualcuno ad impegnarsi al mio posto, impresa non facile. Già, ma cosa c’è stato di facile fino a quel momento?

La mia famiglia si trasferisce a Milano durante gli anni del boom, con un Paese da ricostruire: lavoro per tutti e tutti al lavoro, qualunque sia. Mio padre si è congedato da sottufficiale della Marina militare perché la città offre ai suoi figli più opportunità, e accetta un posto da tranviere.

Al momento delle superiori, seleziona per noi le scuole più severe e nel contempo ci chiede di essere tra i primi della classe, perché l’ascensore sociale esiste (più di oggi) ma non c’è posto per le masse: è riservato ai “migliori”, secondo la valutazione dell’autorità di turno. E a scuola conta il giudizio dei professori, gli stessi ai quali i genitori attuali arrivano a contestare voti e richiami.

Parlo dei genitori che proteggono i propri figli fino alla laurea, e li sostengono con “paghetta” e weekend: una vita senza lotte e sacrifici. Forse hanno fatto altrettanto quei quattro signori distinti, artefici, con mille altri, della società attuale e – peggio ancora – di una generazione abulica, che si arrende alle prime difficoltà: sdraiata sul divano.

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