Puntuale come ogni anno – Covid o non Covid – è arrivato il report Ocse Education at a glance che si pone l’obiettivo di mettere a fuoco i trend fondamentali dell’istruzione emersi nell’anno dai dati delle indagini internazionali Ocse.
La novità di quest’anno è che non sembrano esserci molte novità. Un’impressione che deriva anche dalla lettura di altri documenti Ocse e di pubblicazioni importanti come il libro di Andrea Schleicher Una scuola di prima classe.
Dunque ristagno? Nella seconda metà del secolo passato l’istruzione è stata vista dal mondo progressista occidentale – deluso dagli esperimenti della prima parte del secolo basati sulle innovazioni nella struttura della società – come lo strumento per eccellenza per migliorare l’assetto delle società e raggiungere una maggiore equità.
Dopo un lungo periodo di egemonia dei pedagogisti, alla svolta del secolo entrano in campo gli economisti e la rivoluzione informatica, che porta ad un uso massiccio dei dati. Si attribuisce un valore fondamentale all’istruzione ai fini non solo del miglioramento del benessere dell’individuo, ma di tutta le società. Si cerca di individuare gli elementi strutturali dei sistemi scolastici con risultati migliori nei campi del sapere e del saper fare fondamentali e si teorizza la loro esportazione ed innesto nei sistemi meno performanti. Si tratta principalmente di biennio unitario, ristrutturazioni modernizzanti dei curriculi, valutazioni standardizzate esterne, autonomia ed altro.
I risultati fin qui ottenuti non sono esaltanti. Sicuramente le analisi hanno messo a fuoco gli elementi caratterizzanti della situazione: il ruolo decisivo dello status, le differenze di genere, etc. Ma, soprattutto nei paesi di più alto livello economico-sociale, nonostante sforzi anche significativi, le cose non sono cambiate di molto. Le graduatorie delle nazioni sono piuttosto statiche ed anche quelle delle regioni per quanto riguarda l’Italia. Salvo un fenomeno evidente: l’arrivo in vetta delle tigri asiatiche e lo scivolamento in basso dei paesi nordico-anglosassoni. Ma l’avvento degli asiatici non sembra dovuto tanto all’inserimento nei loro sistemi delle caratteristiche raccomandate da Ocse, quanto ad uno sforzo e ad un impegno legato alla voglia di miglioramento in piena consonanza con i loro boom economici.
Si comincia dunque ad ammettere che cambiamenti radicali e veloci sono difficili da verificarsi per la vischiosità dei sistemi, l’enorme massa di interessi anche corporativi coinvolti, la difficoltà della politica di fare investimenti a lungo termine in un periodo di rapidi mutamenti degli orientamenti dei cittadini. Il che equivale peraltro a riconoscere che non tutti i contesti sono uguali, che sono segnati da condizioni ambientali e culturali differenti e soprattutto dalla loro storia, la grande assente in tutte queste indagini.
Il Life Long Learning non sembra avanzare. Certo il Covid non ha favorito, ma sembra quasi che si sia arrivati ad un soffitto di cristallo. Qui si tocca con mano un aspetto ricorrente delle indagini: anche nei paesi Ocse lo zoccolo duro prevalentemente maschile (ma non solo) di bassa scolarità, basso Escs etc. è poco scalfibile.
In proposito viene riaffermato lo stretto rapporto fra possesso di titoli ed occupazione. Ma si comincia a fare dei distinguo in relazione ai diversi contesti e segmenti del mercato del lavoro, come nel caso delle persone con background immigrante a basso livello di scolarizzazione che trovano più lavoro dei pari nativi.
Forse il ragionamento sul rapporto quasi causale fra titoli di studio-occupabilità-livelli di remunerazione-Pil nazionale vale per certi tipi di attività ovvero segmenti del mercato del lavoro e non per altri. Così si potrebbe spiegare la persistenza di significative percentuali di analfabetismo funzionale dello zoccolo duro.
Continua il rapporto difficile fra gli uomini e l’insegnamento: non solo sono molto meno (anche se passando ai livelli superiori per età i numeri si irrobustiscono), ma se ne vanno molto di più. Il rapporto si sofferma solo sugli aspetti economici perché a parità di titoli in altre professioni si può guadagnare di più. Ma forse bisognerebbe considerare anche gli aspetti di immagine: accudienza contro assertività?
Dove le cose sembrano cambiare lentamente ma solidamente è nel campo delle differenze di genere. Sono infatti soprattutto i giovani maschi a presentare una percentuale significativa disinteressata alla scolarizzazione soprattutto generalista e più vocata all’acquisizione di professionalità. Le ragazze continuano la loro inesorabile scalata scolastica. Solo nel livello apicale del terziario – i dottorati – si fermano al 45%, ma non è difficile prevedere che presto anche lì diventeranno la maggioranza. Ciò che le frena nel divenire egemoni anche nel campo dell’occupabilità e della remunerazione è il loro ancora difficile rapporto con le materie e gli indirizzi Stem. Una tendenza però non omogenea nei diversi paesi, il che apre la strada all’ipotesi che si tratti di una propensione negativa “storica” e non “biologica” e pertanto modificabile. Se naturalmente trova una risposta, se non una spinta, nella cultura della società: in Iran le ragazze costituiscono la maggioranza dei laureati, ma questo evidentemente non basta.
Infine lo status economico-sociale continua ad essere decisivo, perfino più della provenienza etnica e nazionale. E di conseguenza il tormentone dell’equità continua a dominare nelle ricerche.
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