Stavamo scherzando. La fine della scuola è arrivata come una generalizzata pacca sulla spalla. In questi cento giorni davanti a uno schermo ti sei bruciato gli occhi, il tablet e il sonno per rincorrere i compiti: chi te l’ha fatto fare? hai visto com’è andata a finire? Chi non si è connesso per mezzo secondo e non ha mai studiato è stato promosso come te, che sei arrivato a giugno stremato. Ormai non ci credi più, perché constati che, alla fine, è tutto uguale, vanno tutti avanti, ma nemmeno dopo questa sanatoria si vergogneranno di propinarti la retorica del senso del dovere, del rispetto per l’istituzione, del “poi vedrai che…”. Gli stessi che, contemporaneamente, sono sempre assillati dal “voglio vedere i risultati”. È il risultato che conta, no? Se ti salvi dalla serie B o vinci uno scudetto per il coronavirus, fra qualche anno chi ne parlerà più? chi oserà sindacare sul modo in cui ci sei arrivato?



Ai campioni del male, specialmente di quel culmine del male che si chiama inganno, manca sempre, come Dante ci ha insegnato, un sussulto di coscienza, un’ombra di pentimento. Non aspettiamoci, perciò, che si metta in discussione chi non ha aperto un libro da marzo o chi ha ingiustificabilmente continuato a percepire 1600 euro mensili per un paio d’ore di videoincontri settimanali privi di contenuti, senza aver imparato a scattare una foto che non fosse sfocata, a centrare l’obiettivo della fotocamera o a rileggere i fogliettini zeppi di cancellature ed errori ortografici spacciati per spiegazioni.



In questi mesi è diventato normale indossare una maschera. Se qualche volta ci accorgevamo di averla dimenticata, ci sentivamo nudi, quasi senza mutande. Ma le maschere che coprono la bocca sono poca roba rispetto a quelle che coprono l’anima. Perché lo schermo protegge, lo sappiamo: possiamo vedere bambini trucidati in guerra con la tranquillità con cui assistiamo a una serie tv, insultare chiunque e sfogare le nostre repressioni; possiamo anche tenere per tre mesi la fotocamera spenta perché non vogliamo guardare né essere guardati. Pensa dove ci siamo impantanati: non vogliamo essere guardati. E l’abbiamo accettato, come se fosse normale parlare per tre mesi a mezza classe girata di spalle, il che significa, siccome l’apparenza non inganna (ancora Dante docet: se una persona è “gentile” e “onesta”, questa cosa “pare”, si vede), aver accettato che, in fondo, a mezza classe non gliene importasse niente, che la sincerità non appartenga a questo mondo. Tolleriamoci, lasciamoci stare. E io che mi ostino a desiderare che le mie parole cadano nei tuoi occhi, anzi prendano forma dai tuoi occhi, zampillino da quella fonte…



Cosa sostiene l’impegno e la voglia di ricominciare? Di certo nessun voto in pagella. Quest’anno è un nascondino in cui alla fine c’è uno – Lucia Azzolina – che salva tutti. Anche quest’anno. Il mondo è ingiusto, non giriamoci intorno: Dante ci ha scritto una cantica, Manzoni un romanzo. Ne vale la pena? A conti fatti, no. “Non c’è cosa più amara che l’inutilità” che ti attanaglia alla fine di certe lezioni o di certi anni, in cui ti sembra di aver parlato quasi a nessuno. Una larga semina, con pochi fiori. Lo sforzo enorme di spostare un macigno di appena un millimetro, senza che qualcuno se ne sia nemmeno accorto. Finito tutto. Ogni parola evaporata. L’amore di Catullo, di Dante, di Petrarca azzerato da ben altre Lesbie, Beatrici e Laure. Poi l’improvviso rallentare del ritmo, lo spalancamento della vacuità. Su uno schermo hai già letto i voti per trenta secondi insieme ai genitori: anche lì una pacca sulla spalla e tutto è stato archiviato. Cosa si fa, adesso? come riempiamo il vuoto delle giornate?

Cosa ho cercato? L’anima, oltre lo schermo. L’ho trovata? Raramente, ed è già tanto. La costruzione di una sincerità è un obiettivo tabù, inconcepibile per chi da sempre esegue, anche coscienziosamente, il proprio ruolo nel gioco delle parti: io insegno, tu apprendi. Impensabile impastarsi nella vita dell’altro, rompere davvero l’estraneità, scoprirsi vicini, telefonarsi in lacrime una domenica mattina, scriversi le proprie angosce un sabato notte, vedersi un lunedì alle 8 di mattina per giocare a pallavolo e rubare ciliegie. Che roba è? Manteniamo il distanziamento sociale! Gli ottimisti ingenui non capiranno: per loro è andato tutto bene, la scuola ha retto, ringraziamoci a vicenda e godiamoci le meritate vacanze. Cosa rispondiamo però a questa studentessa liceale?

“C’è un problema: non mi sento più. Non riesco proprio a vivere e soprattutto – cosa che non avrei mai pensato di dire – vorrei che questi anni finissero il prima possibile. Lo vorrei semplicemente perché sono stanca di continuare a seminare per poi raccogliere chissà quando, sono stanca di sentirmi sempre affannata, sempre ansiosa. […] Sono cambiata, ma non l’ho voluto io. Sto dando anima e corpo per cercare di fare qualcosa di buono, di concentrarmi su quello che dovrebbe essere il mio futuro, ma ora come ora non ce la faccio più. Non ce la faccio più perché sta diventando tutto una costrizione, tutto un continuo oscillare tra attimi liberi e giorni pieni. Non so, sarà che la sto prendendo troppo sul serio. Ma vede, non riesco più a conciliare le cose. Ho lasciato danza per la scuola, ho smesso di preoccuparmi di mia sorella per la scuola, ho ridotto il tempo che passiamo insieme – da sole – a dei pranzi stupidi e abituali, ho smesso di pensare a come sto. Ho smesso tante cose per la scuola, ma la scuola quand’è che inizia a preoccuparsi di me? Mi sento in gabbia e non vorrei che fosse così: mi sembra di avere a che fare con dei domatori di tigri. È come se volessero per noi, incessantemente, tutto ciò che noi non abbiamo mai chiesto; è come se avessero fretta di concludere lo spettacolo e ci frustassero nel modo più violento possibile; è come se non si preoccupassero, come se nemmeno notassero le nostre facce stremate”.

Ci siamo accorti di questa faccia, e di quest’anima?

Insisto a pensare che il problema fondamentale della scuola sia andare a caccia dell’io di ciascun ragazzo, del fiume carsico che scorre tra le vene della storia, del cambiamento molecolare, invisibile, l’unico che valga. E perciò che la domanda di chi torna a incontrarsi sia: qualcuno, in questi mesi, si è accorto di te? Hai aspettato uno sguardo che non è arrivato. Volevi essere guardato. Non anziché fare lezione, ma mentre facevi lezione: però la mamma doveva cucinare, l’insegnante doveva spiegare, e tu dovevi studiare.

Pare che la questione sia irrilevante. Non se ne parla mai, né in chat né in televisione né a lezione né per strada. Non ce n’è traccia. È una questione clandestina, che non appare nei tabelloni, non finisce sotto i riflettori, non capita nei discorsi, né nelle riunioni né nei dialoghi con i colleghi, con i genitori e con gli amici. Non sposta niente. Non viene riconosciuta, né socializzata, né gratificata. Non ne ha bisogno. È gratuita. “Virtus pretium sui”, direbbe Seneca: la virtù è il prezzo di se stessa. Cerchiamo la verità per la verità, non per un altro fine; idem la giustizia, la bellezza, la conoscenza, il significato delle cose. Non è per ottenere un risultato che ci si alza al mattino, ma per ideali assoluti. Per guardare ed essere guardati, per risvegliare questa sete in un mondo cieco, buio e indaffarato.

Da anni canto Chiedo scusa se parlo di Maria di Giorgio Gaber: “se sapessi parlare di Maria, se sapessi davvero capire la sua esistenza, avrei capito esattamente la realtà”. Intorno si affolla l’inferno, oltre che dei ciucci e presuntuosi, anche dei presbiti come i dannati danteschi, bravissimi a parlare di come dovrebbe essere la scuola, ma incapaci di guardare a un metro di distanza gli occhi di un ragazzo, che pur si intravedono oltre tutte le mascherine.

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