All’inizio del mese di maggio ho fatto vedere ai miei alunni di seconda media il film Hugo Cabret, diretto nel 2011 da Martin Scorsese e tratto dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick. Si tratta di libro che – attraverso la sapiente orchestrazione di parole e immagini – racconta la storia di un ragazzino che vive nella Parigi degli anni 30. Già orfano di madre e nato in una famiglia di orologiai, Hugo perde il padre nell’incendio del museo in cui lavorava per arrotondare lo stipendio, e si trova costretto, per evitare di finire in un orfanotrofio, ad andare a vivere nei meandri della stazione ferroviaria della capitale con lo zio alcolizzato che si occupava di caricarne gli orologi e che, ad un certo punto, sparisce nel nulla (il suo corpo sarà poi ritrovato senza vita nella Senna).



Per evitare di far accorgere l’ispettore ferroviario dell’assenza dello zio, Hugo continua, tra diverse peripezie, a caricare gli orologi e ad un certo punto viene attratto dalla bottega di un giocattolaio che assembla e vende giocattoli a carica, pieni di ingranaggi e in cui inizia a rubare attrezzi e componenti che gli servono per riparare un automa che stava provando a rimettere in funzione con il padre, dopo averlo riscoperto abbandonato nei magazzini del museo. La storia prosegue, piena di peripezie e di sorprese, e si intreccia con quella del grande cineasta George Melies, caduto in rovina dopo la prima guerra mondiale e ormai deciso a dimenticare tutto ciò che ha a che fare con la sua carriera.



Mi torna in mente in questi giorni questa storia, quando, pressoché terminati gli impegni collegiali di giugno, si apre davanti alla maggior parte degli insegnanti il periodo estivo.

Come mi capita spesso da quando insegno nella scuola media, avevo fatto vedere il film di Scorsese ai miei alunni per gli innumerevoli messaggi che esso contiene, e che penso possano essere da spunto nel momento di crescita in cui si trovano. Un anno, un alunno a cui non piaceva particolarmente leggere era talmente rimasto colpito dalla pellicola che mi aveva chiesto di prestargli il libro; senza lasciarsi scoraggiare dall’apparente mole del volume lo aveva letto in breve tempo, e me lo aveva restituito ringraziandomi. Da quel momento, ogni volta che ne scorgo il dorso sugli scaffali della mia libreria, penso a lui, che nel frattempo ha preso la sua strada e sta affrontando il cammino delle scuole superiori.



Mi torna in mente in questi giorni perché, leggendo sulla stampa le varie notizie sulla scuola che mettono in primo piano la situazione dei precari, la riforma del reclutamento, lo ius scholae e il preoccupante fenomeno della dispersione scolastica, quella scintilla scattata nell’animo del mio alunno è un seme di speranza da cui ho bisogno di ripartire, anche nel preparare il mio prossimo anno scolastico. È infatti in quella domanda che ho ricevuto (come tante ne sorgono nella scuola) che è racchiuso il segreto di una vita che esplode, che cammina, che cresce e non si accontenta di “parlare in corsivo” andando dietro ad una delle qualsiasi mode del momento. È, quella domanda, la delicata riscoperta del ritrovare sé in un incontro significativo (con un testo, un libro, un film, un personaggio, un argomento) che apra alla ricerca del proprio scopo nella vita e promuova il mettersi in modo delle risorse nascoste che abitano ciascuno di noi.

Una delle scene più belle del film di Scorsese vede ritratti Hugo e Isabelle (una ragazza che vive con Melies e sua moglie e che diventerà compagna d’avventura del trovatello) nella stanza dell’orologio principale della stazione, davanti ad una Parigi illuminata di sera. Hugo mostra ad Isabelle l’automa: “A volte la sera vengo qui anche se non devo regolare gli orologi, solo per guardare la città”, le dice. “Hai pensato che tutti i meccanismi vengono costruiti per uno scopo? […] Vengono costruiti per divertirti, come questo topolino, o per sbalordirti, come l’automa. Forse è per questo che un meccanismo rotto mi rende sempre un po’ triste, perché non può fare ciò per cui è stato creato. […] – Forse è lo stesso anche per le persone – continuò Hugo. – Se perdi il tuo scopo… è come se fossi rotto”.

Ecco cosa impariamo dal piccolo orfanello di Parigi: che la scuola (anche nei mesi estivi e in tutto quello che gli insegnanti come me prepareranno per il ritorno tra i banchi di scuola a settembre) ha bisogno di continuare a nutrire il suo terreno della possibilità che tutto ciò che vi accade possa ricondurre ciascuno alla riscoperta di ciò per cui è fatto.

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