Caro direttore,
mi perdonerà se rivolgo a lei queste parole e non a un governante, ma non ce ne sarebbe uno specifico a cui indirizzarle e nessuno, temo, da cui riceverei risposte. Le scrivo da uomo e da professore consapevole che le contingenze sanitarie impongono misure drastiche e una serietà assoluta in tema Sars-Cov-2; siamo all’inizio di una nuova battaglia contro il virus, questo anche i negazionisti ad oltranza possono vederlo. Date queste mie premesse continuo comunque, da ieri sera, a pormi questa domanda: ha senso far partire le restrizioni colpendo le scuole? Mi si potrà rispondere che fra due settimane vivremo comunque un nuovo lockdown, che toccherà a tutti a breve, nessuna attività esclusa, che la gestione è stata inadeguata… tutto condivisibile. Ma qui la battaglia mi sembra un’altra, dal contorno culturale e non sanitario. E di rilevanza enorme.



Tornando a casa ieri a tarda sera (anche gli insegnanti finiscono spesso la giornata alle 19-20), con la tristezza di dover abbandonare nuovamente la didattica in presenza, mi sono stupito osservando la vita serale di Milano attorno a me. Locali pieni, aperitivi a ogni angolo di suolo pubblico, naturale mescolanza di fine giornata. Non sono contro la movida regolamentata, sia chiaro, chi parla è un grande estimatore dell’ampia offerta milanese di ristoranti. Ma, vuoi lo stato d’animo provocato dalla situazione, vuoi la ferrea convinzione della bontà e della necessità della scuola, una domanda mi è sorta spontanea e inevitabile.



Trovandosi nelle condizioni di poter scegliere da dove iniziare con le chiusure, era davvero necessario puntare il dito sulle superiori? E, aggiungo, che tipo di visione culturale del nostro paese rivela tale scelta? Che messaggio mandiamo al mondo e ai ragazzi che tanto avevano sperato di tornare in classe?

Ribadisco l’assoluta consapevolezza che un certo tipo di misure siano richieste. Rimane il fatto che si è iniziato proprio dalla scuola.

La prima osservazione a riguardo è di natura, se volete, empirica. A mio avviso si sta sbandierando da mesi il supposto valore della scuola in presenza senza mai veramente aver giudicato e dato le ragioni di una affermazione del genere. La scuola è in presenza… perché sì. Qui sta il problema: “scuola in presenza” è diventato uno slogan politico, mai veramente un giudizio culturale della comunità. Solo così possono spiegarsi le affermazioni di certa classe dirigente protesa qualche mese fa a combattere per riaprire le scuole che oggi, puntualmente, si schiera dall’altra parte della barricata.



Resta così uno spiacevole amaro in bocca. Davvero certe scelte sono condotte solo in base a determinati calcoli politico-economici? Saremo costretti a spiegare ai ragazzi che è facile colpire loro perché, magari, non producono reddito? Perché non hanno la forza di opporsi?

Il sistema scuola esce, paradossalmente, svilito da questo inopinato stop and go. La riapertura doveva riaffermarne il valore, forse recuperato, agli occhi della società. Il risultato è una nuova affrettata e poco progettata chiusura che fa passare la poco taciuta idea che della scuola si può disporre come e quando si desidera. Che conclusione devono trarre gli studenti?

Ci si è organizzati, si è progettato, si è fatto di tutto questa estate. Questo discorso vale per la maggior parte delle scuole del paese, lasciate spesso sole a dimenarsi in rivoli di ordinanze e prescrizioni. Veramente non si poteva agire prima in supporto al tessuto scolastico nazionale? Perché ragionare sempre, e solo, sulle conseguenze?

Perché di conseguenze ce ne saranno. Anche tra i ragazzi, per quanto non si vogliano vedere. Sta serpeggiando in questi giorni una malsana idea che vedrebbe i liceali immuni, o meno indifesi, rispetto ad altri, a una quarantenata e famigerata Dad (didattica a distanza). Come se fosse indifferente per un ragazzo ritrovarsi all’improvviso, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, rinchiuso a seguire i suoi prof da uno schermo. Avere 15, 16, 17 anni non preserva i nostri studenti da un’enorme fragilità che il lockdown ha provocato e continua ad alimentare.

Non capisco come non si possa tenere conto di tutto ciò. Nel solo mese e mezzo passato in presenza ho potuto toccare con mano gli enormi strascichi psico-fisici che i mesi scorsi hanno lasciato in eredità ai miei studenti. Tanti ragazzi sono rimasti segnati, alcuni toccati più nel profondo, altri magari più baldanzosi ma comunque intimoriti. Le loro paure sono come deflagrate nella solitudine della scorsa primavera.

Non a caso la quasi totalità di loro in questi giorni condivideva la propria ansia all’idea di tornare a far scuola da remoto.

Non chiedo molto. Chiedo solo di tenere conto di tutto questo quando si tratterà, nuovamente, di prendere decisioni simili. Chiedo di tenere conto di loro, i veri protagonisti di domani.

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