Chi sono i ragazzi che perdiamo ogni anno per strada? Che la scuola perde e che nessuno ritrova più? Non conta l’età. Già a undici, dodici anni sono come macigni, duri come roccia. Stanno in classe per sfidare il mondo intero: entrano quando vogliono a lezione, se ne fregano dei richiami dei prof – anzi, rispondono con insulti e minacce –, chiedono di uscire e stanno fuori ore intere a fumare nei corridoi o nei bagni.
Durante la lezione ridono, si truccano se sono ragazze, parlano a voce alta, mangiano continuamente patatine e merendine (ma non ingrassano mai, tanto grande è la catastrofe interiore che li consuma), riempiono il banco di fogli, foglietti, forbici e nastri adesivi, pennarelli con cui imbrattano le pareti bianche. Se il docente li rimprovera, gli bestemmiano in faccia e hanno dentro il corpo un’energia forzuta impossibile da contenere. Hanno rabbia, sono un’aggressione vivente. Dividono il mondo dei coetanei e degli adulti in amici e nemici. Sei nemico perché si convincono che li guardi male o li guardi storto. E se passi lungo il corridoio ti gridano di non guardarli negli occhi. Altrimenti sei amico perché così ha deciso il loro umore quotidiano.
Cosa è successo a questi “perduti”? È accaduto che non credono più che ci sia qualcosa per loro. Non sono violenti per una cattiva educazione, sono cattivi perché per anni hanno visto intorno a sé gente senza ideali, tranne “l’usura, la lussuria e il potere” (Eliot). Per anni non si sono sentiti aspettati da nessuno e di conseguenza hanno dedotto che nella realtà non ci fosse alcuna positività amorosa, affettiva, che li attendesse. Uno a dodici anni può essere già vecchio perché la sua vita non ha scopo. Non ha orizzonte. A dodici anni uno ti può guardare con uno scetticismo che neppure un sessantenne deluso dalla vita possiede. È uno sguardo ancora peggiore di quello dell’adulto, perché nasce da occhi teneri, da occhi bambini, al cui fondo non c’è più alcuna richiesta d’amore. Perché – si dicono – l’amore non esiste.
Sembra di risentire i versi di Primo Levi: “Cercavo te nelle stelle/ quando le interrogavo/ bambino… Perché mancavi, nelle lunghe sere/ meditai la bestemmia insensata/ che il mondo era uno sbaglio di Dio/ io uno sbaglio del mondo”. I loro occhi guardano il mondo, ma nel mondo non c’è niente che assomigli al loro nome. Allora usano il loro corpo come si usa un’arma infuocata. Ci pestano sopra come fosse un asfalto di periferia su cui sputare. Guardano e ridono di un sogghigno senza divertimento e senza gioia. Aspettano solo di consumarsi e di morire, forse, se poi la morte esiste per davvero. Suonata la campanella di fine scuola, i perduti vanno poi a ingrossare le cronache violente e rissose dei sabati sera, fatti di alcool fumo droghe e carabinieri. Le strade nere li inghiottono di nuovo, come si ingoia la polvere lasciata dai fuoristrada.
I servizi sociali, le magistrature, le forze dell’ordine e alfine la scuola, se li rimpallano. Finché non accade il peggio, il disastro, la tragedia. Allora per due giorni se ne parla sui giornali e nelle tv, con le massime di esperti e psicologi che fanno la lezione. Cercando i colpevoli. Rincorrendo i fantasmi.
I perduti, sempre di più, sempre in aumento, fra i ragazzi, fra gli studenti, fra il popolo dei giovani, sono un grido. Sono il grido. Sono il segno di un uomo che non sa più guardare il desiderio infinito del proprio cuore. O forse – o certamente – i perduti sono le lacrime stesse di quel cuore che piange la sua disperazione perché questo mondo adulto ha pensato che si potesse vivere di conquiste limitate di soldi, di sesso, di potere. E questo solo ha lasciato in eredità.
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