Come se non bastassero tutti i problemi organizzativi che si frappongono fra l’ottimismo della volontà e la riapertura delle scuole, un nuovo spettro è venuto ad agitare i dibattiti nelle ultime ore: stando a rilevazioni per ora solo locali, un numero indeterminato, ma potenzialmente enorme, di docenti sarebbero sul punto di non rispondere all’appello del 14 settembre.
Stando alle stime, si tratterebbe di circa 400mila soggetti che rientrano nei criteri di “fragilità” nei confronti del contagio, secondo i parametri Inail e dell’Istituto superiore di sanità: per motivi di età (over 55) o di patologie debilitanti (cardiologiche, oncologiche, dismetaboliche e così via).
Insomma, un docente su due è a rischio sanitario: e, se tutti fossero allontanati dalle cattedre, o decidessero di auto-allontanarsi, la scuola non avrebbe nessuna possibilità di partire, neppure se disponesse di risorse finanziarie illimitate per le supplenze. Non ci sono infatti abbastanza supplenti, soprattutto nei territori e per le materie per cui il problema si porrebbe. E molti dei potenziali supplenti sarebbero a loro volta in condizione di fragilità anagrafica o sanitaria.
L’Inail, che in aprile ha innescato la miccia – quando il lockdown rendeva comunque astratto il nodo – oggi tace prudentemente. L’Iss, chiamato in causa, nella sua più recente Summa pubblicata appena qualche giorno fa, glissa sulla questione, rinviandola alle decisioni del medico competente, di cui ogni scuola dovrebbe dotarsi. Il medico potrebbe cavarsela prescrivendo mascherine più protettive o visiere di plexiglas da portare in permanenza o altri dispositivi di protezione individuale: ma vorrà farlo? La responsabilità di una dichiarazione di idoneità fisica, sia pure protetta, sarà prevalentemente sua. Se i contagiati si contassero a migliaia, come farebbe a difendere quella diagnosi?
C’è quindi il fondato timore che, da parte dei medici competenti, scatti una sorta di riflesso verso l’approccio difensivo: nel dubbio, ti dichiaro inidoneo. Tanto più che essi non dipendono dall’amministrazione centrale, che potrebbe in qualche modo spingere per un orientamento: essi dipendono individualmente da un contratto con le scuole. E il dirigente scolastico non ha nessuna voglia di forzare a sua volta la mano, prendendo su di sé la patata bollente.
Può essere che, nei prossimi giorni, l’Iss torni sulla questione per dire una parola più chiara: ma i precedenti non autorizzano l’ottimismo. L’approccio medico alle questioni epidemiologiche è, giustamente, fra i più conservativi: l’ideale – dal punto di vista sanitario – è che le aule somiglino a delle camere sterili.
L’approccio realista – quello che fissa una misura di rischio accettabile a fronte di un danno certo – è proprio della politica: almeno quando c’è e sa fare il suo mestiere. Lo hanno dimostrato i grandi statisti nei momenti topici della storia dell’umanità. Assumere sfide ragionevoli e mobilitare le energie collettive è una dote dei grandi governanti. Finora, non se ne son visti emergere legioni.
Ma c’è, nonostante tutto, qualche ragionevole motivo di ottimismo. Non sta nella macchina, ma nei singoli. Con tutti i loro limiti ed i loro difetti, molti dei nostri insegnanti sono ancora mossi da una visione fortemente etica del proprio lavoro. Quando, a marzo, alcuni sindacati provarono a mobilitarli contro la didattica a distanza, sostenendo che – non essendo prevista dal contratto – non potesse essere chiesta, fu la base – molto prima del ministero – a sconfessarli. Il decreto legge che dava legittimità alla Dad venne un mese dopo. Ma intanto le scuole si erano spontaneamente riconvertite ed attrezzate: improvvisando, sbagliando anche. Ma non si erano tirate indietro e non si erano fermate.
Quando – al colmo della paura collettiva – si fece appello a medici ed infermieri volontari per andare nelle trincee bergamasche, le adesioni spontanee furono oltre dieci volte superiori alle richieste. Quella gente rischiava la vita: ed erano pubblici dipendenti, con posto fisso, che potevano starsene tranquilli nella loro sede in regioni meno problematiche. Eppure sono andati ed hanno fatto il loro dovere ed hanno dato una mano ad uscire dall’emergenza.
Ecco, l’emergenza è una delle poche forze in grado di mobilitare energie collettive: i volontari in tempo di alluvioni e di terremoti ne sono un altro e ricorrente esempio.
Chi scrive è vissuto a lungo nella scuola e può dire di aver maturato un lungo e motivato disincanto nei confronti del suo funzionamento ordinario e dei limiti di chi la amministra. Ma crede di poter anche essere testimone di questa riserva di energie che chiede solo di potersi esprimere.
I nostri governi ed i nostri ministri non credono nella sussidiarietà della società civile e continuano a tenere ben strette le leve di controllo, salvo a collezionare un insuccesso dopo l’altro nel loro utilizzo. Non sanno fare appello alle coscienze degli individui, perché ne hanno perso la cultura prima che le parole. Ma io sono convinto che, se la questione della fragilità dei docenti si manifestasse realmente con i caratteri dell’emergenza con cui viene annunciata in queste ore, la resilienza delle persone – ed in particolare degli stessi docenti – si manifesterebbe in tutta la sua forza.
Non importa, in questi casi, che ci sia una minoranza di renitenti: gli esempi di debolezza, anche giustificata, non sono mai mancati. Ma non hanno mai fermato la forza dell’orgoglio collettivo di fare la cosa giusta. Messi alla prova, io ne sono convinto, i nostri insegnanti – anziani, demotivati, spesso realmente affetti da qualche seria patologia – reagiranno in maggioranza nell’unico modo giusto: entrando in classe e facendo il proprio dovere giorno per giorno. Mugugnando, magari, ma senza chiamarsi fuori. Fai quello che devi, accada quello che può.
L’esperienza potrebbe dimostrarci a breve che i docenti, nel loro insieme, non sono fragili: non più di quanto lo siano stati nel loro momento più difficile medici, infermieri, volontari, vigili del fuoco. E di quanto non lo siano i cittadini di un paese che è e resta grande, quando hanno la sensazione di avere nelle proprie mani il destino proprio e quello dei propri figli.