L’emergenza sanitaria causata dal diffondersi del Coronavirus e la relativa chiusura così prolungata delle scuole, fatto senza precedenti nella storia repubblicana, costituisce una sfida rivoluzionaria per la scuola italiana, già alle prese peraltro da diversi anni con un’altra emergenza, quella educativa. Una crisi, nella crisi, che investe l’intero paese, se è vero, come osservava Péguy, che “la crisi dell’insegnamento è la crisi della vita in generale”. “La scuola è finita”, ha titolato il mese scorso Repubblica, quasi ad intonare il de profundis.



Lo smarrimento di questi mesi si è visto soprattutto tra gli studenti, più o meno piccoli, per una quotidianità perduta fatta di spazi, di presenze, di sguardi. Non c’è dubbio che sono propri i nostri ragazzi, il cui impeto li proietta in modo immediato e disarmato verso quella promessa che è la vita, a subire il trauma maggiore per un’innocenza di schianto perduta in quanto gettati nell’impotenza, nell’isolamento, nello sconcerto e, per non pochi di loro, nel dolore.



E tuttavia, la ferita subita dal sistema scuola ha avuto un effetto sorprendente e per certi versi inaspettato. Il brusco arresto della quotidianità scolastica e l’interruzione improvvisa del rapporto con gli studenti ha di colpo ridestato tutta la comunità scolastica da una prassi divenuta per molti scontata, smuovendo dalla staticità e dalla stanchezza soprattutto il corpo docente, mortificato economicamente e socialmente, provocando in quest’ultimo un risveglio di sé stesso e del proprio ruolo insostituibile nella società.

La sperimentazione di forme di didattiche a distanza, avviate in molti casi prima delle indicazioni ministeriali, testimoniano infatti il tentativo di una scuola che non aspetta che gli studenti ritornino, ma li raggiunge fino in casa, coinvolgendosi innanzitutto umanamente con il loro vissuto drammatico. In questa iniziativa libera e consapevole la maggior parte del corpo docente riscopre la natura della sua vocazione, facendo intravedere l’annuncio di una nuova primavera, il segno di un nuovo inizio. “Un imprevisto – scriveva Montale – è la sola speranza”. Anche per la scuola!



Non si vuole con questo affermare che la scuola così come l’abbiamo conosciuta debba mutare i suoi paradigmi tradizionali. Lo scopo della scuola è, e resta, la “coltivazione” dell’umano, l’accadere della persona; così come lo strumento principale rimane quello di una relazione amorosa, come sosteneva Platone, tra docente e discente, relazione personale che certamente non può essere sostituita da alcunché di virtuale.

La scuola in carne e ossa ci manca! Il cambiamento in atto concerne piuttosto la concezione di sé, la consapevolezza nuova che investe innanzitutto il corpo docente e che costituisce l’anima della scuola stessa. Gli insegnanti nel momento drammatico attuale riscoprono che prima dei programmi ci sono dei volti da guardare, non avendo paura, per dirla con le parole dello scrittore Affinati, di assumersi la responsabilità dello sguardo dell’altro, sguardo oggi impaurito e pieno di domande di senso sul presente; sguardo che perciò viene nuovamente avvertito come una chiamata alla comunicazione di sé da offrire come risposta all’altezza della sfida, anche attraverso il programma.

Arthur Schopenhauer osservava che “se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore forse non verrebbe in mente a nessuno di chiedersi perché il mondo esista e perché sia fatto così com’è fatto”. Oggi i nostri ragazzi sono essi stessi queste domande e chiedono adulti che sappiano intercettare il loro grido nella “guerra lunga” che vede i docenti in seconda linea, dopo gli operatori sanitari, capaci di mantenere come possono quel dialogo educativo tra generazioni che costituisce il fattore più potente della ricostruzione a cui sarà chiamato il paese intero.

Un docente di una scuola romana mi diceva di una madre che gli ha scritto: “nel contesto umano limitante si sopravvive grazie a queste ore di lezione e al nuovo contatto umano indispensabile”. Gli insegnanti oggi sono convocati ad essere presenza che chiama all’essere ragazzi che rischiano di scivolare nel nulla, ad offrire uno sguardo positivo su un futuro a tutti ignoto, a garantire un diritto all’istruzione mentre le libertà vengono meno.

E nel rispondere a questa sfida essi hanno dovuto in pochissimo tempo riscrivere programmi, personalizzare obiettivi, reinventare la didattica, attraverso strumenti digitali quasi mai adoperati prima e di cui per certi versi se ne comprende finalmente tutto il valore. Una dirigente di una scuola lombarda di successo raccontava come il bisogno concreto emerso in questi mesi abbia incrementato la motivazione dei suoi docenti nel conoscere un mondo guardato sinora con reticenza.

In questo sforzo, nell’inevitabile vuoto normativo iniziale e solo in parte colmato, i docenti si sono scoperti comunità educante capace di saper mettere in comune conoscenze ed esperienze e individuando le strategie innovative più idonee, originate da quella creatività suggerita dal papa nel suo messaggio televisivo agli italiani di inizio aprile. “Anche se siamo isolati, – disse papa Francesco – il pensiero e lo spirito possono andare lontano con la creatività dell’amore. Questo ci vuole oggi: la creatività dell’amore”. Proprio questo ha permesso che, nelle pieghe dell’emergenza in corso, la scuola venisse ricreata virtualmente dal nulla, bruciando distanze, tempi e barriere.

Tutto questo fiorire di generosità, in atto su tutto il territorio nazionale, testimonia dunque non soltanto che la scuola non è finita ma che in essa si è riaccesa in modo prepotente quella fiamma, mai spenta in verità, di gratuità e di dono che ne è all’origine e che ritrovo in modo commovente in una filastrocca inglese per bambini, che mi è stata inviata dalla madre di un’alunna, grata di intravederla in atto:

I will teach you in a room
I will teach you now on zoom
I will teach you in your house
I will teach you with a mouse
I will teach you here and there
I will teach you because I care.
So just do your very best.
And do not worry about the rest

 È in questa autocoscienza ritrovata la speranza della scuola che verrà, della scuola che è già iniziata.

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