Il docente italiano (ogni docente in verità, a qualunque nazionalità appartenga) è definito da due dimensioni che sarebbe un errore dimenticare, magari sovrapponendo l’una all’altra. La prima è quella che nel contratto di lavoro è definita “funzione docente”. L’altra fuoriesce dal contratto ed è il patto o relazione implicita che il docente stabilisce con la società, con il popolo nel quale è immerso. Chiamiamo questa seconda dimensione radice vocazionale o culturale.



Si è portati a pensare che il docente “statale”, cioè assunto dallo Stato per concorso, sia o debba essere totalmente appiattito sulle dinamiche ordinamentali prescritte dai programmi o dalle norme, ma non è così. Non lo è non solo per gli insegnanti delle scuole paritarie, ma anche per quelli delle scuole statali. Il docente non è un funzionario che obbedisce a delle coordinate rigide, in qualche modo è sempre “scoordinato”, perché risponde anche ad un’altra “patria” che è la comunità di destino per la quale si sente chiamato. Potremmo indicare questa seconda radice anche come responsabilità nella trasmissione agli alunni di una tradizione di senso. Tale responsabilità non la può dare lo Stato, la si scopre nelle corde della vocazione all’insegnamento.



Questa duplicità o “doppietà” dell’identità docente è ben riconosciuta dallo Stato. All’insegnante, in primo luogo, si chiede di aiutare gli alunni, grado dopo grado, a pervenire ai livelli essenziali dell’apprendimento, cioè a quegli obiettivi umani, culturali, civili e professionali degli alunni, che consentano loro di ritenersi soddisfatti del servizio che la scuola, intesa come grande meccanismo di adeguamento alla strutturazione del mondo attuale, è tenuta a rendere loro. Ma come si diceva, c’è di più, perché non viviamo in uno Stato né incivile né totalitario. Stabiliti gli obiettivi (che variano a seconda della crescita del sapere e delle condizioni nelle quali oggi ci si trova a vivere), il “come” si possano perseguire non è un problema dello Stato, ma del docente, della sua responsabilità e della trama di relazioni nelle quali è inserito. Relazioni tra colleghi e relazioni con la comunità territoriale e nazionale nella quale egli opera.



Nel contratto nazionale del docente è perciò ben specificata questa caratteristica autonoma. Anche nell’ultimo contratto scuola 2019-2021 si dice (art. 40) che “la funzione docente si fonda sull’autonomia culturale e professionale dei docenti”. Se interpretate correttamente, queste parole significano che il docente non è un essere avulso dalla realtà o anarchico, ma chiamato a rispondere ad una cultura alla quale occorre che appartenga e invitato ad attribuirsi un profilo o modello professionale (attualmente è richiesto un complesso di competenze che variano dalle disciplinari, alle informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, ecc.). È un compito alto quello del docente, implicando una cultura e una professione.

Poi lo stesso testo del contratto aggiunge che la funzione autonoma “si esplica nelle attività individuali e collegiali e nella partecipazione alle attività di aggiornamento e formazione in servizio”. Autonomia, in altre parole, non significa isolamento e solitudine, bensì costruzione comune di una identità. Lo Stato in realtà non ha mai o quasi mai aiutato il docente a sviluppare la seconda dimensione, quella vocazionale-culturale, essendo questa impregnata di libertà di critica proprio nei confronti dello statalismo imperante (evidente nei modi della contrattazione, nelle richieste talvolta asfissianti della burocrazia, nell’incombente obbligatorietà e unilateralità della formazione).

Da parte del ministero dell’Istruzione (e del Merito) oggi il docente è concepito più che altro come un tutor, come un agevolatore di pratiche didattiche più che una personalità di cultura. Tutto ciò, come documenta da tempo questo giornale, può creare sconforto nei docenti che si sentono più preparati o immedesimati nella vocazione. L’abilitazione all’insegnamento corrisponde a una procedura del tutto generica e le scuole o le reti di scuole non hanno, come invece dovrebbero, alcuna incidenza sulle normative di assunzione dei nuovi docenti. E quando in qualche modo la scuola fa presente che deve anche rispondere alla comunità di riferimento (come è accaduto a Pioltello), ci si scandalizza e si richiama all’ordine. Nello stesso tempo, però, chi esalta l’apertura all’islam di Pioltello è magari critico rispetto all’affissione dei crocefissi nelle aule o all’attenzione per le festività religiose cristiane. La cura delle origini cristiane del popolo (che deve esserci) non impedisce il riconoscimento di altre presenze. A patto, appunto, che si conosca e si stimi la propria origine. Questa cura, tuttavia, è in gran parte affidata a docenti (o dirigenti) che, come detto, sono poco o per nulla concepiti come perni di una comunità che si ricostruisce continuamente e non è fissata una volta per tutte.

Il tema della libertà di insegnamento, di formazione, di aggregazione è sicuramente da riprendere e da rilanciare. Basterebbe, per esserne convinti, pensare al fatto che non esiste altro luogo al mondo, che non sia la scuola, dove sistematicamente e accuratamente (talvolta) la tradizione dalla quale si proviene, costituita da lingua, storia e religione, è chiamata a confrontarsi e verificarsi nell’esperienza del dialogo e del confronto umano e disciplinare.

Insomma, per tornare e concludere a proposito dell’identità del docente, aiutiamolo non solo a conformarsi, ma mettiamolo nella condizione, anche attraverso la valorizzazione di filoni liberi di formazione e aggiornamento, di rispondere ad una umanità giovane che è sempre più bisognosa, oltre che di strumenti per la vita, di significati per comprenderla.

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