“Ah, i tre mesi di vacanza dei professori…”.

Eccola qua, la frase che quasi tutti quelli che non insegnano pronunciano almeno una volta l’anno. Poi naturalmente aggiungono: “Per non parlare delle vacanze di Natale e di Pasqua!”.

Le reazioni possibili da parte dei docenti

1) Non sono mai tre mesi. Per esempio, un insegnante di liceo chiamato come commissario agli esami “di maturità” finisce di lavorare nella prima metà di luglio e magari a fine agosto deve tornare a scuola per gli impegni legati ai corsi di recupero e agli esami “di riparazione”.



2) Dato che ci pagano così poco…

3) Che cosa ha impedito che diventassi anche tu insegnante?

4) Le settimane di riposo sono anche troppo poche!

Concentriamoci sull’ultima risposta.

Chi si lamenta per i “tre mesi” di vacanza dimostra di non aver la minima idea di che cosa significhi insegnare. Quindi dovrebbe, quando si parla di scuola, provvedere a tacere in tutte le lingue che conosce.



Presumibilmente l’impegno psicofisico di chi insegna per (almeno) nove mesi all’anno non è comprensibile per chi non lo abbia provato. Neanche i docenti universitari si rendono conto di questo, dato che i loro studenti, nonostante il decadimento generale del nostro sistema di istruzione, hanno pur sempre una vaga idea del perché e percome si trovino in quelle aule.

Ovviamente qui si sta parlando di professori che prendono sul serio il proprio lavoro. Rispetto ai fannulloni, non si può far altro che ripetere la domanda: quando avremo un serio sistema di valutazione dei docenti?

Chi, come il sottoscritto, ha avuto in passato la “fortuna” di ritrovarsi sbattuto nella vuota routine delle supplenze per due interi anni scolastici (ricordate il fantastico organico di potenziamento di renziana ideazione?) comprende bene, per contrasto, la fatica fisica, mentale e (scusate la parolaccia) spirituale necessaria per portare a termine l’anno scolastico. Decentemente, se possibile. Più che di un lavoro usurante, si tratta di un’esperienza totalizzante.



Poi naturalmente c’è un altro aspetto da sottolineare. In estate i docenti che amano il proprio lavoro hanno l’opportunità di esplorare nuove strade. Non parliamo di aggiornamento, per favore. Ma che gusto dà, per esempio, poter leggere le cantiche dantesche senza interruzioni? Oppure Vita e destino o gli altri densi classici della letteratura? (in questi casi, tutti usano il termine “rileggere”, ma non siamo ipocriti, per favore).

E perché non dedicarsi all’ascolto sistematico dei grandi della musica del Novecento (almeno), da Gershwin a Dylan?

Ma se l’educazione ha a che fare con l’intera esistenza, allora l’estate può essere il momento per ravvivare rapporti veri con la realtà in tutti i suoi aspetti. Per “veri” qui si intende semplicemente “non virtuali”. Per carità: “Tenetelo pure acceso”, come sostiene il libro citato in una delle tracce per la prima prova dell’esame di Stato 2022, il tesoruccio elettronico che tenete in tasca e consultate continuamente anche voi adulti (anche qui: bando all’ipocrisia!)

Poi però avere alcune settimane libere per progettare visite a persone e cose rilevanti per la propria umanità non può non aiutare la prospettiva con cui si affronta l’anno successivo.

Non si tratta quindi soltanto di “ricaricare le pile”. In questo caso, forse venti giorni potrebbero bastare.

Avere una sorta di bimestre sabbatico permette di far emergere ciò che è essenziale, nella vita dell’insegnante, e di ripartire da lì.

In attesa che la burocrazia ci raggiunga anche il 1° agosto.

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