In luoghi abbandonati
Noi costruiremo con mattoni nuovi
Vi sono mani e macchine
E argilla per nuovi mattoni
E calce per nuova calcina
Dove i mattoni sono caduti
Costruiremo con pietra nuova
Dove le travi sono marcite
Costruiremo con nuovo legname
Dove parole non sono pronunciate
Costruiremo con nuovo linguaggio
C’è un lavoro comune
Una Chiesa per tutti
E un impiego per ciascuno
Ognuno al suo lavoro.



(T.S. Eliot, da Cori della Rocca)

Così il poeta racconta che, all’attenuarsi delle luci, nella penombra, si odono cantare le voci degli operai che, nei Cori della Rocca, sono tutti coloro che sentono la responsabilità ideale del proprio lavoro. Per lui il lavoro umano ha come scopo supremo la realizzazione di una umanità veramente autentica, libera da falsità, ipocrisie, menzogne e compromessi.



L’opera di Eliot nasce da un giudizio negativo sulla società che si è venuta costruendo nel suo secolo: egli per primo avverte il cambiamento di un’epoca che in quegli anni si consuma, guardando acutamente intorno a sé vede luoghi di rovina, valori persi o marciti, parole impronunciate o senza più senso alcuno, una situazione sociale che scricchiola da tutte le parti. Ciò nonostante i suoi operai cantano di una possibilità, di nuove pietre, di nuove parole, di un lavoro comune e di un lavoro per ciascuno.

Il racconto della desolazione è il punto centrale anche di altre opere di Eliot e in questa estate, molto più che in aprile, il più crudele dei mesi per il poeta, sembra che le sue parole calzino a pennello per tutto quello che ci circonda. Perché questa estate, ma forse tutte le estati, sembrano essere il luogo in cui tutta l’insensatezza, la contraddizione, la dismisura ci scoppiano dentro e intorno: dalla politica alla cronaca, si vive di reazioni, di esagerazioni, di sragionevolezza.



Il mio amico Giuseppe, il mio vecchio collega di scuola, ogni giorno mi manda messaggi per sottolineare come questa estate sia il luogo deputato della vacanza della ragione, limitandosi tra l’altro a registrare quello che accade, si dice, si conferma e si smentisce nel mondo della scuola nel quale ci ritroviamo a vivere insieme da tempo.

Non che nella scuola questa specie di virus della ragione si sia diffuso improvvisamente e misteriosamente. Prendete ad esempio la questione dell’Invalsi: anni e anni di investimenti, studi e ricerche per avere strumenti di valutazione delle scuole italiane che ora vengono buttati letteralmente nella spazzatura. Perché se uno strumento c’è ma non si usa per quello per cui è stato costruito è come se non ci fosse. Ma noi siamo il mondo liquido in cui ciò che è definitivo diventa provvisorio, ciò che è determinato diviene indeterminato. La scuola è il mondo in cui non si riescono a fare concorsi, poi si fanno e vengono annullati, poi se ne confermano invece i risultati; è il mondo in cui ci sono metodi di reclutamento degli insegnanti che vengono applicati e disattesi contemporaneamente, a sfidare il principio di non contraddizione di aristotelica memoria. La scuola è il posto in cui le cose fino a ieri si chiamavano educazione civica, poi oggi si chiamano cittadinanza e costituzione, materia fatta da decine di altre materie che nessuno sa chi dovrà insegnare, che nessuno sa se sarà da valutare e se, eventualmente valutata, dovrà andare a concorrere alla valutazione complessiva degli studenti. Studenti che a loro volta si arrogano il diritto di presentarsi a un colloquio d’esame per fare la rivoluzione, prendendosi giustamente qualche legnata in faccia, perché nessuno ha spiegato loro che cosa erano lì a fare, perché per primi i professori non l’avevano capito.

Insomma, Giuseppe qualche volta nei suoi messaggi estivi mi dice che forse ha ragione il nostro amico Davide Rondoni e che tutto questo carrozzone andrebbe buttato via. Ma Rondoni è un poeta innamorato di Eliot e sa che non si butta via niente della realtà che abbiamo intorno. Che è con quella roba lì che si potranno fare mattoni nuovi, tirare fuori parole nuove, mettendosi al lavoro ognuno per il suo pezzetto di muro.

Ecco, il mio amico Giuseppe non è ancora arrivato al fermate il mondo, voglio scendere! perché sa che non si può scendere e che non si può soltanto certificare la fine della ragione e dunque della speranza. Lui in questa estate di dismisure e sragionevolezze dice che sta ascoltando Eliot, che sta facendo il suo pezzetto di lavoro: legge qualche romanzo, persino dei poeti; rilegge i suoi libri di testo per scoprire se, tra tutta la fuffa presente, non si sia magari perso qualche esercizio, qualche suggerimento buono da dare ai suoi alunni, prova a mettere in comune qualche sua scoperta.

Anche a me manda ogni scoperta che fa e dice che questi potrebbero diventare i mattoni nuovi di cui parla Eliot. L’altro giorno mi ha mandato la foto whatsapp di una pagina del romanzo edito da Mondadori La casa degli sguardi di Daniele Mencarelli, un poeta che conosco, grazie a Davide Rondoni, dai tempi del suo primo libricino pubblicato nel lontano 2001 da I poeti di Clandestino.

Ecco, leggiti ’sta pagina 188 del libro, mi scrive Giuseppe. In quella pagina Danie’ o Danielì – come chiamano il protagonista i suoi compagni di lavoro al Bambino Gesù di Roma – capisce che “serve accogliere l’umano con tutta la forza che ci è concessa. Arrivare alla bellezza che non conosce disfacimento, nucleo primo e inviolabile. Fronteggiare l’orrore per sfondarlo.

Ora che ho cominciato a leggere il romanzo, perché prendo sempre sul serio i compiti che mi dà il mio amico Giuseppe, sto scoprendo pagine di una verità, di una forza, di una commozione davvero intensissima. E forse mi accorgo che è persino esagerato tirare in ballo questo libro enorme per un confuso articoletto di mezza estate. O forse no: nella scuola, come nella poesia e nella letteratura, c’è in gioco qualcosa di tremendamente serio. C’è in gioco la vita. E come insegna Mencarelli, contrariamente a quello che pensano o sragionano in molti, non è la poesia che salva la vita, ma è il contrario; non è la scuola che salva la vita, ma è il contrario. Ma bisogna avere il coraggio di guardarla fino in fondo ’sta vita. Bisogna avere il coraggio di fare ciascuno il suo lavoro. Mi accorgo che in verità qui potrebbe cominciare il mio articolo. Invece qui finisce. Senza istruzioni per l’uso. Se non quella di rimettersi a guardare come fa Danie’ o Danielì, perché il pensiero, la ragione nascono dallo stupore. Grazie Danie’.