Una prospettiva educativa sull’identità di genere, che per i ragazzi oggi è una questione delicata, sensibile, non scontata, talvolta dolorosa o addirittura variabile nel tempo (tra il 2009-2017 il Tavistock Clinic Gender Identity Development Service nel Regno Unito ha registrato un aumento delle richieste annuali per la transizione di genere da 96 a 2.016), può contribuire a chiarire perché un genere definito (gender) non si contrapponga a eventuali difficoltà di definizione, che costituiscono non tanto una disforia (secondo il DSM) o un’incongruenza (secondo l’OMS), quanto piuttosto (nella gran parte dei casi) una sfida alla responsabilità dell’adulto, esattamente come tutte le altre difficoltà di crescita.



Identità (dire io) e genere (mascolinità e femminilità) non sono mai disgiunti, perché se siamo, siamo solo nella forma di un certo genere (gender self). Il genere cioè non è una parte di sé, come i rispettivi organi anatomici, ma è sé, identità sulla quale gli spazi comunitari, sociali e culturali aggiungono aspettative di comportamento maschili o femminili, codificando il genere anche in senso sociale e culturale (gender role).



Il punto di riflessione è che l’identità di genere non è un dato, ma un processo. Si definisce nell’infanzia (0-5 anni), si stabilizza con la pubertà (9-14 anni) e si riempie di significato dall’adolescenza in poi (14-20 anni e oltre), esattamente come tutte le altre capacità. Nessuno avrebbe mai preteso che Dante scrivesse la Commedia a 3 anni: prima dovette imparare ad articolare le sillabe, poi le parole, poi l’espressione di un pensiero orale, poi scritto, poi testi sempre più complessi ecc. fino a comporre il testo letterario che non ha mai avuto eguali nella storia. Mascolinità e femminilità maturi e generativi sono una sorta di Commedia dell’identità di genere: l’esito compiuto di un processo di crescita, che stratifica le acquisizioni nuove sulla base di quelle precedenti.



Geneticamente siamo solo o maschi o femmine, e solo nei primi 40 giorni di gestazione siamo sessualmente neutri. Poi nei 9 mesi di gestazione un certo corredo cromosomico attiva il corrispondente assetto ormonale, che nella quasi totalità dei casi conferma e sviluppa quello genetico, così che alla nascita anatomicamente e fisiologicamente siamo o maschi o femmine. Già in questo passaggio sono esistenti – seppur rari – casi in cui lo sviluppo ormonale non confermi il precedente assetto genetico (forme ermafrodite), ma complessivamente le componenti genetica, ormonale, anatomica e fisiologica costituiscono la nostra identità di genere biologica.

Poi, a partire dalla nascita e durante i primi 3 anni di vita circa, entrano in gioco le esperienze affettive primarie, in cui sono attivi meccanismi di identificazione che in condizioni relazionali normali confermano l’assetto di genere biologico. È proprio nell’alveo delle relazioni con la madre e il padre che inizia a svilupparsi il primo nucleo della percezione psichica di sé, che è sempre e contemporaneamente anche una percezione di genere. Il genere cioè si struttura anche dentro le relazioni, e se durante l’infanzia l’esperienza del bambino avviene entro un sostanziale rispetto delle sue necessità relazionali, la crescita psichica si mantiene nell’alveo della binarietà biologica, esattamente come lo sviluppo ormonale si era mantenuto nell’alveo della binarietà genetica.

Successivamente, quando nel prosieguo della crescita (3-7 anni) entra in gioco la capacità della comunità di garantire risposte significative ai bisogni relazionali del bambino, si definisce anche la dimensione sociale dell’identità di genere (ad esempio quando uno zio può assumere un ruolo affettivamente significativo in luogo di quello paterno).

Solo alla fine entra in gioco l’assetto culturale della comunità d’appartenenza (messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione, dal web, dai social; modelli sessuali; assenza di proposte culturali strutturate ecc.). Ad esempio portare il kilt per gli uomini scozzesi è un comportamento maschile socialmente accettabile, mentre portare la gonna per un uomo italiano non è socialmente accettato.

I singoli passaggi del processo di definizione identitaria non hanno tutti un medesimo spessore e peso, ma un peso progressivamente decrescente: la componente biologica ha forza maggiore, a cui segue la componente psichica, che è ancora estremamente incisiva, sulla quale con forza minore gioca un ruolo la componente culturale. Essere maschi o femmine è cioè il risultato finale di un processo, che sulla base di una componente biologica più determinante influisce su una componente psichica anch’essa incisiva, che viene rinforzata o meno da una componente culturale.

Se tutti i passaggi maturativi si svolgono in condizioni che potremmo definire ecologiche (presenza di genitori di entrambi i generi; figure affettivamente significative di entrambi i generi; corrispondenza nell’adulto tra l’identità di genere e la struttura emotivo-relazionale, ecc.), ogni passaggio maturativo conferma l’assetto precedente e somma a quelle già esistenti una componente ulteriore, che vi si stratifica rinforzando e stabilizzando le acquisizioni precedenti.

Invece, se l’esperienza del bambino non garantisce il rispetto dei suoi bisogni relazionali, la dimensione psichica si adatta a un assetto definito da bisogni non corrisposti. Con quale esito?

L’esito dipende dall’esperienza vissuta: ogni bambino ha una propria biografia relazionale e quindi la definizione di genere, che ne è l’esito, non è strettamente classificabile. In ogni caso si tratta di un esito né compiutamente maschile, né compiutamente femminile, determinato non dalla volontà del singolo, ma dalla sua biografia in un momento della crescita, in cui è ancora totalmente dipendente dagli adulti, dalle loro decisioni, dai loro stili di vita. Si tratta di un esito incongruente solo rispetto all’assetto genetico, ma estremamente congruente rispetto alla biografia relazionale, come a scuola è osservabile a partire dal periodo pre-scolare.

In passato a favore di un processo identitario più lineare giocavano almeno quattro fattori: una localizzazione circoscritta della vita comunitaria, omogenea sotto i profili etnico e culturale e quindi maggiormente facilitante il processo identitario; una presenza comunitaria maggiore nei primi anni di vita del bambino così che, in caso di eventuali inadeguatezze del nucleo familiare ai bisogni relazionali del bambino, era la comunità ad assorbirle; poi l’assenza di un pensiero ideologico (gender) e di una corrispettiva industria con il suo dispiegamento comunicativo. Infine un’identità di genere, che non si definisse nell’alveo della binarietà, veniva facilmente emarginata.

Oggi la mescolanza etnica e culturale può comportare uno sradicamento e un’estraneità che non facilitano il processo identitario. La crisi familiare comporta più facilmente solitudine e difficoltà di socializzazione. Le comunità non ci sono più, e quindi a relazioni familiari disfunzionali segue quasi di necessità un processo identitario problematico. La maturazione identitaria è anche gravata dalla cappa di un pensiero ideologico che non ne favorisce il naturale processo (funzionale o meno), come ha recentemente messo in luce il Rapporto Cass. Infine, chi non si definisce nell’alveo della binarietà non ha più bisogno di nascondersi.

In più se in passato il peso della componente biologica è prevalso in maniera ideologica su quello della componente psichica, oggi la componente psichica rivendica un medesimo peso rispetto a quella biologica (“I just want to be a boy” recita un cartello mostrato ai media da una adolescente), ma perlopiù in modo altrettanto ideologico.

Quindi oggi, più che in passato, un conto è la biologia (genetica, ormonale, anatomica e fisiologica) e un conto è l’esperienza (affettiva, sociale, culturale). In natura ci sono maschi e femmine, mentre nell’esperienza il dato biologico viene confermato o meno nei passaggi di maturazione identitaria dei primi 5 anni di vita circa, e poi definitivamente orientato e consolidato dalla pubertà all’adolescenza. Chi è maschio o femmina in senso biologicamente binario non è più bravo di altri, ma è stato più fortunato di altri; al contrario un’esperienza relazionale disfunzionale, che tende a strutturare generi con maggiori e minori componenti di mascolinità e di femminilità, va alla ricerca di una definizione su base affettiva, sociale e culturale, ed è proprio nello spazio di questa ricerca che si inserisce il canto delle sirene ideologico, rispetto al quale non sono generalmente in campo alternative di accompagnamento.

A mio parere la Dichiarazione Fiducia supplicans, un documento che ha avuto 7 miliardi di visualizzazioni in rete, in fondo dice questo. Un conto è la verità-viva della persona: un processo di maturazione delle componenti identitarie di genere che, avvenendo in condizioni ecologiche, conferma il dato genetico originario, chiamandone in causa tutte le figure responsabili. Un altro sono le biografie delle persone, in cui quel processo – per motivi che al fondo non attengono alla decisionalità del singolo – può confermare o meno il dato genetico originario.

Diversi, invece, sono sia un pensiero ideologico che assolutizza la componente biografica, relegando l’identità di genere all’autodeterminazione individuale, sia una verità-astratta costituita da categorie di pensiero (maschio e femmina) in cui il genere è ridotto alla sola componente biologica.

Come per tutto ciò che attiene alla persona, a essere decisiva è la capacità educativa degli adulti: non basta una passiva attesa vigile (watchful waiting), occorre invece un’esperienza, che garantisca le condizioni ecologiche del processo identitario in particolare nei primi 3 anni di vita e poi fino all’adolescenza.

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