Non è chiaro se nel discorso al Senato il premier Mario Draghi, parlando degli istituti tecnici, abbia voluto far riferimento agli Itis (istituti tecnici industriali statali), oppure agli Its (istituti tecnici superiori) che forniscono una formazione post-diploma, di cui ha fornito il fabbisogno futuro in termini di diplomati. Fatto sta che il suo tentativo di valorizzare la formazione tecnica ha messo il dito, forse involontariamente, su una delle piaghe dell’istruzione italiana. Un punto dolente che coinvolge anche il settore professionale (istituti professionali di Stato) oramai abbandonato a se stesso, ma che avrebbe un’urgente necessità di ristrutturazione, sia negli aspetti organizzativi che nelle finalità e come si dice nel campo del marketing, “della mission”.



Un quadro generale della scuola superiore italiana è reperibile nelle percentuali di iscritti ai vari indirizzi di studio, che quest’anno si sono concluse il 25 gennaio. Risulta che il 57,8% degli studenti che accedono alle superiori abbia scelto i licei, che il 30,3% abbia optato per gli istituti tecnici e che solo l’11,9% desideri frequentare un istituto professionale. La tendenza si è oramai stabilizzata, con un’accentuazione nella scelta dei licei nelle regioni centro-meridionali, con punte che in Lazio raggiungono il 71,2%, Campania 63,9% e Sicilia 63,8%, mentre Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna hanno adesione agli istituti tecnici sopra la media con valori compresi tra il 36 e il 38% (Veneto).



In genere i commentatori spiegano questo divario delle scelte dei quattordicenni italiani con le differenze del tessuto produttivo di appartenenza dei ragazzi e le disparità tra Nord e Sud del territorio nazionale. Tuttavia le aspettative lavorative, a parte il criterio imitativo verso gli amici, non spiegano totalmente perché tecnici e professionali non siano nel cuore degli studenti italiani. Un altro dei fattori in gioco, raramente individuato dalla indagini, riguarda la richiesta di formazione da parte delle famiglie.

I licei infatti per garantire standard culturali più alti sono obbligati a un maggior rigore, più cura della motivazione e quindi richieste di impegno più intenso. La trasandatezza e l’approssimazione sono poco accettate e molte famiglie sono consapevoli che la fatica e le difficoltà abbiano un valore formativo e anzi la maggior parte di loro desiderano per i propri figli che la scuola non li parcheggi, ma curi l’insegnamento e sia rigorosa sul comportamento.



Qui non si vuol sostenere che negli istituti tecnici la qualità dell’insegnamento sia meno marcata, ma è anche vero che spesso in molti istituti il rigore educativo e la preparazione professionale non è sempre positiva. Dipende dall’impronta dei dirigenti scolastici, ma anche il contesto socio-culturale di riferimento fa la differenza. Inoltre nelle aree periferiche, urbane e non, il turnover dei docenti è molto marcato e, soprattutto, le materie professionalizzanti sono spesso affidate a docenti che hanno il doppio incarico, cioè insegnano e svolgono anche un’attività professionale, che spesso va a detrimento dell’aspetto formativo.

Anna Maria Ajello, presidente Invalsi, ha dichiarato al Corriere della Sera che “non è un caso che nelle regioni dove c’è un’industria più forte gli istituti tecnici sono di qualità”, per cui anche il fattore territoriale e produttivo influisce sul tipo di formazione impartita. Simonetta Tebaldini, ingegnere e dirigente dell’Itis Castelli di Brescia, in un’intervista a Famiglia Cristiana è rimasta impressionata positivamente dalle dichiarazioni di Draghi e ha ribadito che “noi non riusciamo a soddisfare le richieste del mondo industriale”, facendo poi notare che “gli industriali bresciani sono usciti tutti da qui”. La Ds Tebaldini ha però fatto notare come l’impianto disciplinare dei tecnici sia da rivedere: “Noi abbiamo una scuola fatta di mille materie. In prima gli studenti ne fanno 15 compresi i laboratori. È un sapere troppo frammentato”.

Se i licei hanno saputo adattarsi meglio con gli indirizzi musicale e coreutico (classico), con le “scienze applicate” o l’indirizzo sportivo (scientifico), l’adattamento dei tecnici alle modifiche del tessuto produttivo è molto più lento (industria 4.0, transizione ecologica, digitalizzazione, servizi alle imprese), per cui si rende necessario, con la ripartenza dopo la pandemia, il superamento dell’immobilismo della scuola tecnica statale. Sembra una proposta improba, ma se si vuole che permanga la vocazione italiana, in auge sin dal medioevo, di essere un paese trasformativo e mercantile, si deve da subito ripensare alla “scuola di mezzo”, quella posta tra i licei e i purtroppo “negletti” istituti professionali, di cui riparleremo.

In verità un esempio di scuola tecnica, positiva e dinamica, in Italia esiste già e Draghi, nel sui discorso di insediamento, ad essa ha voluto riferirsi. Si tratta degli Its (istituti tecnici superiori), che si rivolgono ai diplomati. Rappresentano un segmento dinamico che risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche per promuovere i processi di innovazione. Formano tecnici in stretto contatto con le aziende, anche se ancora oggi sono una nicchia e neppure presenti in tutte le regioni. Attualmente sono attivi 107 enti, strutturati come fondazioni, ma sono frequentati solo da poco più di 18mila iscritti, una minima parte del fabbisogno complessivo di personale specializzato.

I fondi del Next Generation Eu dovranno essere utilizzati anche per riorganizzare i tecnici del ciclo secondario e della formazione terziaria non universitaria, ma per poter avviare un vero piano di sviluppo della scuola tecnica italiana, ci vogliono idee, visione del sistema e condivisione di strategie. Cose che il neoministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi dovrà condividere con una platea più ampia e non trattenerle negli angusti spazi del ministero che guida da poche settimane.

(1 – continua)

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