Inizia un nuovo anno scolastico e con esso le sfide quotidiane sempre più urgenti che il lavoro in classe con gli studenti impone.

Insegno matematica e fisica in un liceo classico e sicuramente il tipo di studente e di problematiche che incontro nel mio lavoro è diverso da quello che incontra un docente impegnato in altri tipi di indirizzi e livelli di scuola. Tuttavia ritengo che ci siano delle sfide nell’insegnamento che sono da considerare comuni, sebbene possano apparire declinate diversamente nei vari casi. Una di queste sfide è, a mio parere, il problema di come ottenere l’attenzione dei ragazzi.



Col passare degli anni ho riscontrato una sempre maggiore difficoltà nello stabilire una relazione di stima tra i miei studenti e i contenuti proposti. Nella mia esperienza, in generale, ho a che fare con ragazzi che sono rispettosi, talvolta studiosi e impegnati a raggiungere risultati positivi, ma constato che il più delle volte essi non si aspettano di trovare qualcosa di interessante per sé nell’impegno scolastico e spesso il loro approccio è formale e disincantato: chiedono per ottenere risposte puntuali mirate a comprendere un meccanismo, raramente trovo uno studente realmente interessato a conoscere l’oggetto che sto considerando. Questo atteggiamento ormai molto diffuso è, a mio parere, un “nemico” della trasmissione della conoscenza.



È opinione diffusa che la causa principale di questo “disastro” sia la presenza invadente di dispositivi tecnologici che tendono a creare un’interfaccia tra noi e la realtà, ma penso che questo sia solo un aspetto del problema, certamente importante e da non trascurare.

Ritengo infatti che l’atteggiamento osservato, sicuramente indotto anche dai mezzi tecnologici a nostra disposizione, abbia un’origine molto più profonda.

Mi riferisco alla natura dei rapporti che stabiliamo con le persone che incontriamo nella nostra vita. Sia a livello familiare, sia nel campo del lavoro e più in generale nella nostra convivenza sociale, i rapporti sono sempre più frequentemente caratterizzati da patti, regole e contratti, dove pertanto la dimensione della gratuità è sempre più rara, se non addirittura guardata con sospetto perché creduta impossibile.



Difficilmente viviamo il gusto dello stare insieme o del guardare un oggetto o un fenomeno della natura per il semplice fatto che c’è. Normalmente i criteri che ci guidano per uscire dal nostro guscio sono o l’esigenza di rispondere a un bisogno o il desiderio di provare soddisfazione o piacere.

Non mi addentro oltre in questa analisi che potrebbe sicuramente portare a molte considerazioni interessanti, ma prendo spunto da questa riflessione per ricordare che l’attenzione genera vera conoscenza quando nasce da un atto libero della volontà, cioè un atto gratuito.

Ed è proprio questo punto di partenza, una volta dato per scontato, che ora va riconquistato e, in questo senso, la strada da percorrere è tutta in salita.

Per questo scopo, a tale riguardo, una prima osservazione importante e che può sembrare ovvia, ma non scontata, è che non è possibile rivolgere la nostra attenzione verso un oggetto se prima non ci accorgiamo della sua presenza.

Nell’aula sono presenti tre protagonisti: l’insegnante, gli studenti e la disciplina. Se non ci si rende conto della presenza di tutti questi “soggetti”, non è possibile che avvenga una lezione.

A tal fine una pratica che ritengo efficace anche se è stata stigmatizzata da modelli educativi che sono andati per la maggiore negli ultimi decenni, è quella di chiedere agli studenti di alzarsi e di stare in silenzio all’entrata dell’insegnante in classe. Chiedere un movimento del corpo in corrispondenza di un fatto che accade, costringe a un cambiamento che può essere certo vissuto meccanicamente, ma può anche essere occasione per risvegliare la coscienza.

Un altro momento prezioso all’inizio della lezione è quello dell’appello. È questa l’occasione per instaurare un legame tra l’insegnante e ciascuno degli studenti che vengono in questo modo interpellati in prima persona. Mi rendo conto dell’utilità di questo momento quando, per esempio, mi capita di saltare il nome di uno studente e questo subito mi fa notare la mia mancanza, o quando, presa dall’ansia per il lavoro da svolgere, salto questo passaggio e mi trovo allora in una classe distratta dove poi sono costretta a recuperare un atteggiamento adeguato (in itinere) in modo artificioso e facendo più fatica.

A questo punto quando, gli studenti si sono accorti della presenza dell’insegnante e sono in silenzio, inizia il momento più drammatico.

Come scrive María Zambrano in Per l’amore e per la libertà, in questo momento, è come se dal silenzio degli studenti emergesse una domanda: “ora dal momento che ti diamo la nostra presenza – e la presenza per un giovane è tutto – dacci [..] la tua presenza fatta parola per vedere se corrisponde al nostro silenzio”.

È fondamentale quindi che la proposta del contenuto da sviluppare durante la lezione sia all’altezza della disponibilità degli studenti. Non può perciò essere ridotta a una comunicazione enciclopedica di informazioni e nemmeno a un intrattenimento culturale, e né tanto meno può divenire l’arena del pensiero comune; livello a cui inevitabilmente si riduce quando si sottolinea troppo il protagonismo degli studenti.

A tal proposito ritengo interessante tenere presenti alcune idee guida.

La prima segue da una frase di Reinhold Niebuhr. “Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone”, la seconda è che solo la comunicazione di qualcosa di vivo può essere all’altezza della “presenza” degli studenti.

Per questo è importante essere consapevoli del valore di ciò che si spiega, e del fatto che si tratta di una conquista di uomini che si sono lasciati interrogare dal reale e naturalmente essere noi insegnanti disponibili a percorrere la stessa avventura con i nostri studenti.

Per quest’ultimo aspetto sono molto debitrice dell’esperienza pluriennale che ho fatto con i miei studenti partecipando al concorso ScienzAfirenzE2 e all’amicizia di insegnanti con cui ho imparato ad approfondire la stima e il valore di ciò che insegno.