Vogliamo far ripartire la scuola? Perché pensare a quisquilie e pinzillacchere come i programmi, la valutazione, il sostegno ai ragazzi lasciati indietro da un periodo di chiusura, il più lungo d’Europa, che ha penalizzato ulteriormente le fasce più deboli? Niente di tutto ciò: mettiamoci un commissario “utile a garantire l’ordinato avvio dell’anno scolastico”. Dice la Ministra dalle labbra rosse, che ha sostituito la maestrina dalla penna rossa: “Piena soddisfazione per la norma inserita nel Semplificazioni che affida nuove competenze al commissario Arcuri per supportare la riapertura delle scuole a settembre. Una norma scritta e fortemente voluta dal mio ministero. E che permetterà ad esempio di velocizzare l’iter per l’acquisto e la distribuzione degli arredi scolastici, come i banchi singoli di nuova generazione”. Non dobbiamo nemmeno scomodarci a cercare: ne abbiamo già uno a disposizione, Arcuri.



Per un attimo, confesso, ho pensato al fratello di Manuela Arcuri, l’attore Sergio, che perlomeno è molto bello e potrebbe fornire qualche incentivo all’81,7% di insegnanti donne. Fugace speranza: si tratta invece di Domenico Arcuri, commissario all’emergenza, i cui poteri verranno ampliati per consentire un rapido acquisto di Dpi (Dispositivi di protezione individuale), nonché di arredi e strumenti.



In mancanza della casalinga di Voghera a cui faceva riferimento Alberto Arbasino, può qualcuno dei geni del ministero spiegare a me e a qualche altro milione di genitori preoccupati, perché mai la ripartenza debba essere più ordinata e sicura centralizzando per l’ennesima volta qualsiasi decisione, di dettaglio o di politica generale, che riguarda la scuola? Perché i banchi di ultima generazione, ma ci accontenteremmo anche della penultima, dovrebbero arrivare più in fretta se ordinati a Cernusco Lombardone dal commissario centrale, anziché dal dirigente scolastico della limitrofa Olgiate Molgora? Che poi un sottosegretario dichiari che la nomina di un commissario costituisce un segnale positivo di legame fra il ministero della Salute e quello dell’Educazione fa parte dei misteri dolorosi oggetto di meditazione per i credenti, e di disperazione per chi non sa a che santo votarsi.



È uno degli assunti di ogni teoria dell’organizzazione il fatto che la soluzione migliore ad un problema si ha quando i tre soggetti – chi individua il problema, chi lo risolve, chi mette in pratica la soluzione – sono il più vicino possibile al luogo in cui il problema si manifesta. L’esatto opposto di quel che è sempre accaduto nella scuola italiana: il problema rilevato in una qualsiasi scuola, in qualsiasi parte del paese, veniva più o meno prontamente inviato a Roma, dove il ministero, sempre più o meno prontamente, ci pensava su un po’, e poi spediva la soluzione alla scuola, che nel frattempo aveva cercato di arrangiarsi come poteva.

Alcuni ingenui, tra cui almeno inizialmente anche la sottoscritta, avevano pensato che l’entrata in vigore dell’autonomia avesse modificato questo stato di cose. Ebbene, non è così: il cittadino/suddito (nella scuola considerato forse anche incapace di intendere e volere) deve per definizione rinunciare a risolversi da sé i suoi problemi, con l’aiuto dello Stato, e delegare la soluzione allo Stato medesimo.

Intendiamoci, la mia critica non è rivolta specificamente al commissario in questione, del cui operato non intendo occuparmi (per quanto, nel suo pur prestigioso curricolo non trovo traccia di una qualsiasi expertise nel campo della scuola…), ma all’idea di mettere un commissario all’emergenza per far ripartire la scuola e far fronte all’emergenza. Il concetto di emergenza, che indica secondo il dizionario Treccani “una particolare condizione di cose, momento critico, che richiede un intervento immediato” non è a mio avviso applicabile alla scuola, in quanto non si tratta di un “momento” critico, se non per la contingenza legata alla pandemia, certamente grave, ma che non può far passare in secondo piano la situazione di pesante sottovalutazione del sistema formativo che è purtroppo una costante nella politica italiana.

In realtà, se la situazione di innegabile e vergognoso abbandono in cui è stata lasciata la scuola nei mesi scorsi, salvata – bisogna dirlo forte – solo dall’impegno di molte scuole finalmente autonome e di molti insegnanti capaci che si sono rimboccati le maniche, ha avuto un aspetto positivo, questo è da trovare nella vera e propria mobilitazione della società civile, inclusi imprenditori e intellettuali, che normalmente non se ne occupano, e che adesso chiedono a gran voce uno scatto di qualità.

La risposta politica è stata largamente inadeguata: indicherei fra i pochi segnali positivi l’impegno trasversale di un gruppo di parlamentari che si sono impegnati a potenziare il sistema pubblico supportando le scuole paritarie, ma per il resto ci sono state solo misure poco efficaci e in grave ritardo, che non individuano un percorso di sviluppo, ma solo rattoppi per un vestito ormai lacero. I dirigenti che lamentano di non aver ricevuto direttive precise, ma nemmeno l’autorizzazione a prendere decisioni e le risorse per attuarle, hanno tutta la mia comprensione.

Mi si potrà dire che questo modo di (non) agire non riguarda solo la scuola: il mitico decreto Semplificazione è in discussione dalla caduta dell’impero romano, non è ancora (9 luglio) pubblicato in Gazzetta Ufficiale dove comparirà “salvo intese”, e poi il Parlamento ha sessanta giorni di tempo per ratificarlo. In questo caso, non vale il detto “mal comune mezzo gaudio”, soprattutto se la richiesta urgente, vitale e diffusa, di investire in formazione ha come risposta la nomina di un commissario  e, al massimo, un asfissiante controllo sulle procedure che non garantisce affatto la qualità degli esiti.

Forse conviene continuare con la lettura del dizionario Treccani, che alla voce “emergenza” asserisce: “soprattutto nella locuzione stato di emergenza (espressione peraltro priva di un preciso significato giuridico nell’ordinamento italiano, che, in situazioni di tal genere, prevede invece lo stato di pericolo pubblico).