Gli articoli a commento dell’annuale rapporto Invalsi sulle prove nazionali manifestano una situazione drammatica della scuola italiana; hanno però il merito di avermi fatto rimettere a fuoco una domanda che da tempo ritengo sia urgente considerare e che ne porta altre con sé. Cosa significa comprendere un testo? Come e con quali strumenti si promuove e accompagna la comprensione? Chi è il responsabile di questo aspetto fondamentale della formazione degli studenti? Se è questo infatti uno dei punti dolenti dei risultati 2019 occorre fermarsi a guardarlo.



Comprendere un testo non è un’operazione banale. È un processo dinamico in cui entrano in gioco diversi fattori che contribuiscono a illuminare il significato del testo e a permettere a chi lo approccia di abbracciarlo, farlo proprio, considerarlo come punto di incontro e confronto con la propria persona. Ai linguisti il compito di sviscerare l’argomento, fermo restando che l’implicazione affettiva del verbo “abbracciare” che poco sopra non a caso ho usato è presupposto reale della conoscenza, soprattutto di quella di cui si fa esperienza nelle aule scolastiche.



Particolare importanza nella comprensione di un testo rivestono l’atteggiamento che si ha verso di esso e l’attenzione che gli si rivolge. Non è secondario, questo, nell’epoca in cui i siti web di notizie indicano i minuti necessari alla lettura dei propri articoli e in cui – quasi ci trovassimo sempre nella metropolitana di Fahrenheit 451 – si è bombardati da pubblicità e da input veloci del “Dentifricio Denham” di turno.

Uno dei primi punti di lavoro della scuola è dunque promuovere l’attenzione, riportare gli alunni in un tempo lungo, dedicato a ciò che hanno davanti. È necessario proporre attività di cui si deve mettere in conto di non vedere nell’immediato il risultato. Leggere racconti ad alta voce, mostrare video e documentari con domande guida, insegnare a prendere appunti, chiedere la riformulazione di qualcosa che si è appena spiegato: sono tutti strumenti che ho provato in questi anni talvolta con l’impressione (lo confesso) di perdere tempo, ma sempre con la consapevolezza che ne valesse la pena.



Un altro punto che mi preme sottolineare nella comprensione di un testo è la padronanza del lessico: se non so le parole né sono attrezzato per scoprirne il senso, il messaggio che mi viene offerto rimane inaccessibile. Ritengo inutile scandalizzarsi della povertà lessicale dei nostri studenti, anche di quelli italofoni. Non bisogna dimenticare infatti che, alla primaria e alla secondaria di primo grado ma anche alle scuole superiori, i nostri studenti sono in una fase acquisizionale, particolarmente ricettiva e curiosa. Tre esperimenti mi danno conferma della sana curiositas su cui si deve investire: l’istituzione dello “scrigno delle parole”, una scatola in cui in una prima e una seconda media collocavamo termini arcaici, strani e desueti trovati lungo il percorso o che mi divertivo ad usare; i miei studenti dovevano riutilizzarli poi propriamente nel loro discorso quando dovevano chiedermi qualcosa; è un’iniziativa, questa, che presto è diventata famosa; il secondo è una scheda (nata in realtà come gioco, ma anche questo è concesso data l’accoglienza festosa che ogni volta ha ricevuto) in cui chiedevo di descrivere un elenco di elementi con quattro parole (“l’estate in quattro parole”, “quattro aggettivi per la tua classe”, “quattro verbi dello sport”, eccetera). Il terzo e ultimo, una verifica in cui chiedevo di ricostruire il significato di alcune parole dal contesto; è emersa di ognuno la capacità e la voglia di sapersi ingegnare.

Si tenga poi conto del fatto che la rivoluzione informatica dei nuovi strumenti di comunicazione sta interessando (e in qualche modo ampliando) il concetto stesso di testualità. Un recente corso di formazione promosso dall’Accademia dei Lincei in collaborazione con l’Università Statale di Milano mi ha fatto riflettere su ciò cui tutti noi siamo esposti quando navighiamo, leggiamo, interagiamo sul web: abbiamo di fronte per lo più testi discontinui (si pensi ai commenti dei post) o interattivi, qualità che favorisce una lettura fortemente personalizzata del testo (posso aprire i link che mi interessano, non gli altri, e nell’ordine che prediligo); non bisogna inoltre dimenticare la presenza sempre più diffusa nei testi online di emoticon, emoji, stickers e adesivi che insieme ai messaggi vocali delle chat e alla possibilità di inviare immagini mescolano codici comunicativi differenti. Non c’è, in questo, giudizio, e anche a questo proposito risulterebbe inutile stracciarsi le vesti. Anche noi adulti utilizziamo e abbiamo imparato a leggere e interpretare messaggi di questo tipo. Si tratta semplicemente di una constatazione di cui tenere conto nella didattica. Se noi adulti arriviamo ai testi che ho appena descritto avendo prima imparato ad affrontare testi continui e strutturati, i “nativi digitali” che abbiamo come studenti sono chiamati quasi a compiere un cammino inverso, nel quale necessitano di essere accompagnati. I testi proposti da Invalsi hanno infatti tendenzialmente un’altra natura. E su altri testi (su quelli che gli insegnanti ritengono significativi per forma e contenuto) i nostri alunni devono essere aiutati a riconoscere e decifrare i punti nodali, i connettivi, a seguire lo svolgersi logico del discorso per farli propri e lasciarsi arricchire.

A conclusione di un ragionamento che meriterebbe di essere approfondito, due considerazioni finali. Compie quasi dieci anni la pubblicazione del libro di Luca Serianni L’ora di italiano. In quel volume il linguista intitolava uno dei capitoli L’ora di italiano: di tutto, di più: titolo significativo, se si pensa alla descrizione delle competenze del docente di italiano, che a suo dire nella scuola di oggi si trova (lo conferma l’esperienza) a riunire “in sé profili diversi, non tutti pertinenti con gli studi fatti a suo tempo”. Il docente di lettere ha grosse responsabilità, e se deve comunque riflettere sui dati Invalsi e rinnovare le sue pratiche didattiche (non dimentichiamo infatti che si tratta di una valutazione di sistema), queste responsabilità sono troppo grandi e numerose per attribuire solo a lui la colpa o il merito dei risultati delle prove di italiano. Ogni disciplina ha a che fare con testi, siano essi scritti o orali. I manuali, le verifiche, ma la lezione stessa – interattiva, laboratoriale, capovolta che sia – è un testo, cioè un intreccio di legami che porta senso e significato. Ai risultati della prova di italiano contribuiscono dunque tutti i docenti, nessuno escluso. Che la scuola acquisisca la consapevolezza di questo potrebbe a breve termine non portare frutto, ma avvierebbe un percorso serio di riflessione sulla professione docente, che non può che riverberarsi positivamente sui nostri studenti. Se poi – mi sia consentito – si ha l’ardire di affermare che anche ai risultati di matematica tutti concorrono, si potrebbe provare a indagare il denominatore comune della conoscenza di ogni ambito disciplinare, che è il muoversi della ragione, e su questo lavorare insieme per crescere giovani che (in qualunque mestiere facciano e nella vita stessa) possano essere consapevoli e dire “io” con tutta la profondità che questo comporta.

Riflettere sui dati Invalsi è importante; entrando nel merito, ogni scuola lo deve fare. Ma nella pratica didattica queste devono essere le priorità del docente: insegnare a scrivere, imparare, creare, argomentare, studiare, riflettere e sperimentare. È investendo sulle soft skills (anche a prezzo di una didattica fantasiosa) che la scuola può dare agli studenti gli strumenti per costruirsi le hard skills e affrontare quanto di nuovo gli si pone davanti, fosse anche la prova Invalsi nazionale di italiano. Ed è così che, anche grazie alla fotografia fatta da Invalsi, la scuola può verificare la validità del suo mandato didattico ed educativo.