Ha un bel dire, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, che “l’anno scolastico è messo in sicurezza, ma non si parli di 6 politico” (comunicato stampa del 6 aprile). Perché sarebbe meglio che ci togliessimo una volta per tutti la mascher(ina) dell’ipocrisia: davanti al “tutti promossi”, dalle medie alle superiori, che emerge chiaro come l’oro da queste e altre parole della ministra, lo studio è presto diventato l’ultimo dei problemi di chi fra i banchi di scuola si barcamena e non solo di loro.



Quasi due mesi di scuola a distanza lo dimostrano ampiamente, tanto da poter scrivere con abbondanza di materiale un nuovo capitolo del simpatico Io speriamo che me la cavo uscito nel ’90 dalla penna di Marcello D’Orta. Qualche esempio, vittima evidente del coronavirus, tolto dall’esperienza recente di insegnanti alle scuole medie inferiori lombarde che conosco bene. Invitato a scrivere una riflessione su un capitolo a piacere dei Promossi Sposi, l’alunno Pierino afferma di essere rimasto colpito da come Giacomo Leopardi ha descritto l’incontro fra Lucia e l’Innominato; un suo coetaneo prende tempo davanti alla difficile domanda della professoressa di scienze (“Quale città è stata sepolta dalla lava del Vesuvio?”) per poi sibilare sottovoce “Roma”; un altro tredicenne s’è detto convinto che il famoso ritratto di Dante firmato da Sandro Botticelli sia una “fotografia”; al giovane collega interrogato su quale illustre musicista Pesaro ha dedicato il suo principale museo (oggetto di visita di istruzione ad inizio anno), la risposta è stata “Gioacchino Rossi”. Risposta suggerita fuoricampo dal papà…



Si può ridere o si può piangere, a voi la scelta. Certo che il “liberi tutti” ovvero il “tutti promossi” (salvo recuperare le materie insufficienti a settembre: ma tanto l’anno scolastico è stato passato, per cui chi glielo fa fare?) costituisce un regalo straordinario per tanti, ma anche un “di meno” per coloro che aspettavano gli esami con la sana trepidazione di chi crede ancora nel loro valore.

L’impressione è che il repentino quanto obbligato passaggio dalla “scuola in presenza” alla “scuola digitale” costituisca la fine sic et simpliciter della scuola, per altro da tempo agonizzante, come l’abbiamo frequentata da ragazzi e vissuta da docenti o da genitori. Non è vero, infatti, che l’entrata a gamba tesa della tecnologia nella didattica (meet, zoom, skype, computer, tablet, cellulari, classroom) rappresenti un passo avanti, l’evoluzione della specie, il cambio di marcia nel modo di insegnare e di apprendere. Lo sarebbe se ne rappresentasse il solo strumento innovativo per raggiungere il fine più alto di migliorare gli apprendimenti e le conoscenze all’interno della società tecnologica. Ma in una didattica marchiata a fuoco ormai da un decennio e più dal mantra delle competenze (“non so, ma posseggo gli strumenti per sapere e ciò mi basta”) che quelle conoscenze hanno ormai sostituito, la tecnologia fa il bello e il cattivo tempo.



Gli esempi si sprecano ed elencarli qui sarebbe esercizio superfluo. Nella scuola infettata dal coronavirus delle competenze, conoscere il funzionamento di un pc (badate bene: funzionamento fine a se stesso, non finalizzato a svolgere ricerche e approfondimenti, che comporta ben altre abilità) equivale (o addirittura ha più valore) a conoscere a memoria, spiegare, interpretare un canto della Commedia, tanto per dirne una. E non si capisce perché se un docente insegna italiano, storia, educazione civica e geografia nella stessa classe, ma in un’altra divide il lavoro con un collega, nel primo caso è previsto un solo voto allo scrutinio, nel secondo caso ne sono previsti due.

Misteri della scuola italiana che la didattica a distanza non fa che infittire grazie a collegamenti internet “a scacchiera” che dicono tutt’altro della serietà scolastica cui si appella la ministra: voci che vanno e vengono, studenti che entrano ed escono, video intermittenti, incapacità di distinguere le responsabilità degli alunni da quelle della linea in caso di lezioni interrotte e metà, impossibilità di escludere il ricorso a suggerimenti durante le interrogazioni, e poi: assenze dovute ad impossibilità di prendere la linea o  menefreghismo? E così via.

Si potrà tornare indietro da tutto questo bailamme che confonde i ruoli, esaspera gli animi, approfondisce i divari geografici, sociali, culturali in nome di una “tecnologia democratica” che non esiste?

La risposta è no e il motivo è evidente. La recente lettera aperta con cui duecento fra genitori e insegnanti si sono rivolti a Lucia Azzolina per chiedere maggior attenzione da parte del governo in vista del prossimo anno scolastico, non fa che rende pubblica un’insofferenza di cui la società stessa non ha alcuna voglia di farsi carico. Tanto è vero che si parla diffusamente della necessità di riaprire le scuole non tanto per motivi educativi, ma di lavoro dei genitori: se le lezioni in presenza non riprendono, come si fa ad andare in fabbrica o in ufficio? Questione reale, per carità, ma a prevalere nella richiesta è ancora una volta l’economia e cioè, alla fin fine, la tecnologia su cui essa si fonda. Della cultura “alta” si può fare benissimo a meno.

Del resto, non risulta sospetto tutto l’interesse che d’improvviso le famiglie hanno mostrato in questi due mesi verso la scuola? Meglio allora cogliere la palla al balzo e fare quel “salto” di cui ogni tanto si sente sommessamente parlare e che ci permetterebbe di uscire dalla finzione: eliminare il valore legale del titolo di studio. Se la promozione è diventata un diritto per tutti, un po’ come accade per la patente di guida, tanto vale usare la mascher(ina) solo per difenderci dal coronavirus.

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