“È un disastro, un vero disastro”: così pochi giorni fa un noto docente della facoltà fiorentina di giurisprudenza sintetizzava il suo giudizio sui tanti suoi studenti che faticano a comprendere e riassumere un semplice testo; e che poi, da laureandi, non sanno utilizzare le indicazioni del relatore per riscrivere le parti inadeguate della tesi. Una testimonianza drammatica ma non sorprendente. Basta pensare alla massiccia adesione di docenti universitari – 770 firme – all’appello del 2017 “contro il declino dell’italiano a scuola”, un’adesione spesso accompagnata da commenti altrettanto sconfortati. D’altra parte i sintomi di una situazione allarmante si manifestano ben prima dell’università attraverso i dati dell’Ocse e dell’Invalsi, quelli sull’analfabetismo funzionale, sull’insuccesso scolastico e sui ragazzi che non studiano e non lavorano.



In questo quadro i cortei giovanili dell’ultimo “venerdì per il futuro” hanno fatto da test sulla consapevolezza del ceto politico rispetto ai problemi che ho elencato. Consapevolezza confermatasi come tendente a zero. Infatti la proposta di Enrico Letta di dare il voto ai sedicenni è stata subito accolta anche da Conte, Di Maio, Zingaretti e Salvini; insomma, quasi da tutti. La motivazione addotta da Letta suona più interessata che convincente. Si tratterebbe di dire ai giovani che hanno sfilato nelle strade italiane: “Vi prendiamo sul serio e riconosciamo che esiste un problema di sotto-rappresentazione delle vostre idee, dei vostri interessi”. È sfuggito a Letta che per correggere la “sotto-rappresentazione” dei giovani si dovrebbero (semmai) abbassare le soglie dell’elettorato passivo, attualmente fissate a 25 anni per la Camera e a 40 per il Senato.



Il bello è che cominciano a levarsi diverse voci contrarie proprio tra i diretti interessati, i sedicenni. Il Corriere della Sera, per esempio, ha pubblicato la lettera di un’insegnante che sintetizza il senso di una discussione in una seconda liceo. In breve, questi ragazzi ritengono di non avere ancora maturato una coscienza politica e di essere quindi facilmente influenzabili; vedono anzi nella proposta un tentativo di strumentalizzarli. Insomma capiscono quello che in molti sembrano ignorare, cioè che due anni di scuola e di maturazione in meno sono un handicap da evitare.

Dunque la logica e il buon senso dovrebbero consigliare, invece delle fughe in avanti a caccia dei voti degli adolescenti, di impegnarsi a fondo per far crescere nell’elettorato la conoscenza dei problemi di cui si devono occupare il governo e il parlamento. Nel preparare i futuri elettori a esercitare il diritto di voto con cognizione di causa, un ruolo decisivo deve per forza averlo la scuola; e questo ci riporta ai suoi problemi e alle loro cause. Mettiamola così: in nessun settore della società che funzioni – per esempio in quello della ricerca scientifica, nella vita delle aziende, nello sport agonistico – si trascura la verifica dei risultati (spinta anzi al massimo grado), l’accurata selezione in base al merito di chi insegna e dirige, l’importanza dell’impegno, della puntualità, del rispetto dei propri doveri. Altrove no.



E purtroppo la scuola, salvo eccezioni, è in questo altrove. Tutti i partiti ne proclamano l’importanza decisiva, ma – ministro dopo ministro – evitano accuratamente di garantire le condizioni di cui sopra per mettere in pratica le buone intenzioni. Si scelgono scorciatoie che occultano i problemi invece di risolverli: spingendo i docenti a evitare le bocciature per “diminuire” la dispersione; creando i Bisogni educativi speciali (Bes) che sfociano in autostrade verso la promozione; legittimando negli scrutini la falsificazione di fatto di molte valutazioni. Gli esami, così importanti per mobilitare le energie degli studenti, sono stati tutti aboliti, meno i due di Stato che però diventano sempre più facili. L’importanza di avere buoni insegnanti viene contraddetta da una debole selezione in entrata, da un gran numero di assunzioni ope legis e dal rifiuto granitico di occuparsi del demerito, cioè dei casi di grave inadeguatezza professionale o deontologica. Ci sono anche fattori esterni alla scuola che rendono più difficile la crescita di cittadini interessati alla res publica. I politici sembrano spesso più preoccupati di ottenere un facile consenso con slogan e battute a effetto piuttosto che di spiegare bene i problemi da affrontare e le loro proposte.

Non pochi programmi televisivi preferiscono attirare spettatori con le risse verbali che dedicare tempo a un’informazione esauriente. I notiziari danno spesso per scontata la comprensione di espressioni o concetti solo perché sono stati già usati. Ma il fatto forse più dannoso di tutti è stato il successo dell’“anti-politica”, che, partendo dall’intento di purificare la vita pubblica dalla corruzione, ha finito per rendere condannabile o almeno sospetta agli occhi di molti la politica in quanto tale; ed è probabile che questo abbia spinto moltissimi ragazzi a estraniarsene.

Non è quindi la presunta “responsabilizzazione” attraverso il diritto di voto di giovanissimi non ancora maturi che può servire al progresso civile, ma in primo luogo una scuola più efficace nel creare cittadini preparati e capaci di ragionare con la propria testa.