BUCAREST – E siamo arrivati anche quest’anno alla soglia degli scrutini. Qui in Romania, dove attualmente mi trovo ad insegnare, la cultura del “voto” è molto radicata. Intendiamoci, non che in Italia la questione sia superata, ma certamente negli anni si è almeno tentato di sciogliere alcuni nodi.
Nella scuola romena – compresa quella italiana che opera a Bucarest – la valutazione rischia invece di ingombrare l’intero orizzonte ed è veramente arduo far passare ai ragazzi – e più ancora alle famiglie – l’idea che, nell’ambito educativo, “valutare” non coincide tout court col “misurare”. E poiché è la scuola, subito dopo la famiglia, il luogo abilitato a seguire un percorso educativo degno di tale nome, non si può certo eludere il problema in maniera sommaria, né tanto meno rischiare di ridurlo.
È proprio per questo che, nella mia prima media, mi rifiuto di cedere alle frequenti sollecitazioni dei ragazzi, i quali insistono ostinatamente nel voler sapere quale voto hanno meritato o, peggio, nel confrontare il proprio con quello del compagno; e poiché non riescono mai ad ottenere piena soddisfazione, finiscono per chiudere la partita convinti – ahimè – di aver subìto la più tremenda delle ingiustizie.
Il lungo vissuto di esperienza scolastica indica però come sconveniente giocare, in un rapporto educativo, il ruolo della professoressa puntigliosa e severa che, di fronte alle rimostranze dei propri alunni, risponde intimando il silenzio e cambiando argomento. Risulta prezioso al riguardo un recente contributo di Massimo Recalcati (Repubblica, 24 gennaio 2022) quando molto acutamente osserva che ogni manifestazione di disagio da parte dei ragazzi dev’essere “intercettata e accolta” in special modo dalla famiglia e dalla scuola.
Mi sono chiesta allora a quale tipo di disagio sia riconducibile l’attaccamento quasi morboso di tanti alunni all’esito di una verifica, di un’interrogazione e, a fine quadrimestre, dei voti in pagella. Il rischio – almeno in Italia, dove il sistema scolastico ha subìto negli anni parecchie riforme – è quello di limitarsi ad intervenire sui “terminali” della valutazione, sostituendo, a fasi alterne, il voto numerico al giudizio discorsivo e viceversa. Raramente ci si è interrogati sul perché la sicurezza degli studenti non possa invece far leva sulla voglia di conoscere e sulla curiosità di scoprire.
È ancora Recalcati a venirci in soccorso quando sostiene, nel già citato intervento, che rispondere al grido dei nostri ragazzi “significa in primo luogo non lasciarli da soli”. “Si tratta”, prosegue, “di ricostruire la fiducia nella relazione, profondamente incrinata anche dalla violenza della pandemia”.
Il suggerimento è stimolante e, senza peccare di presunzione, mi sembra confermi il percorso educativo che anche quest’anno ho intrapreso in un contesto non certo facile e a me del tutto nuovo. L’esempio che vi sottopongo sta già dando i primi frutti.
Ho proposto, alla mia classe prima, un lavoro di autobiografia con l’obiettivo accattivante di poter stampare un libro che raccogliesse tutti i loro contributi. È stata ben più che una semplice strategia, ma un vero e proprio investimento: ho investito sul loro “capitale umano” e, sorprendentemente, ci sono stati. Così hanno cominciato a scrivere: a scrivere di sé, a interrogare i genitori sul perché del loro nome; ad accorgersi del patrimonio umano rappresentato dalla loro famiglia con i fratelli, gli zii, i cugini e i nonni; hanno scoperto quanto importante fosse la loro casa: quella dove attualmente risiedono e tutte le case della loro memoria, perché taluni, a 12 anni, hanno già all’attivo quattro traslochi; e infine hanno rivisitato i loro giocattoli, riflettendo sul perché giocare sia un’esperienza bellissima e liberante.
È stato proprio questo lavoro che ci ha consentito di cominciare a tessere una “relazione”: stiamo dunque imparando a conoscerci e questi tredici ragazzetti hanno capito che ogni battaglia la combattiamo insieme, anche quando li sgrido.
Forse è così che con fatica, ma con tanta passione, si può tentare di “ricostruire la fiducia nella relazione”. Per questo gli ripeto spesso che sono bellissimi e che, se non ci credono, devono imparare a guardarsi come ho cominciato a guardarli io. Anche a me, tanto tempo fa, è capitato così e non l’ho dimenticato. So bene che non è facile, ma è un rischio che noi adulti dobbiamo correre se vogliamo finalmente ritornare bambini.
Solo a questa condizione anche i nostri alunni – ma non solo loro – si accorgeranno che non sarà il voto di uno scrutinio a definirli.
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