Vorrei partire dalle parole di Papa Francesco, “l’educazione è soprattutto una questione di amore” richiamate su queste colonne da Riccardo Prando.
Si tratta di un amore che, come qualsiasi amore, deve fare i conti con la concretezza dei soggetti coinvolti. A scuola si traduce nel “voler bene” da parte degli insegnanti, e non solo, ai volti, alla storia, al desiderio e al destino dei bambini, ragazzi e giovani che nella scuola stanno, transitano, vivono, scommettono o sopportano.
Si tratta di un voler bene lontano mille miglia da uno stucchevole sentimentalismo egualitario e appiattente. È invece un voler bene concreto, mobilitante, prodigo di consegne, attivatore di energie, moltiplicatore di risorse e infine generatore.
Una questione di persone e tra persone che inevitabilmente, a tratti e in taluni momenti, diviene una questione di “personale” (nome collettivo). Questo è tipicamente uno di questi momenti in cui, avendo chiaro il compito, occorre l’individuazione di chi, questo compito, se lo dovrà assumere.
A questo punto succede qualcosa di strano e stupefacente. La concretezza svanisce e le persone vengono scodellate, con un algoritmo, a destinazione. Nella fattispecie gli insegnanti vengono recapitati alle scuole.
Quest’anno è andata molto meglio dello scorso anno e il ministero ce l’ha fatta. Per la verità c’è ancora qualcosa da sistemare: c’è chi, vistosi assegnato il posto, decide per ragioni sue che non fa per lui e rinuncia, manda il tilt il meccanismo nel suo algido procedere e così qualcuno (di umano) ci deve metter mano per evitare che la perfezione del meccanismo si macchi di un ingiusto trattamento, irriguardoso dell’ordine sacro della graduatoria. Il problema è che l’umano ha i suoi tempi.
In tutto ciò quel “bene” con cui si è partiti, dove sta? Il processo asettico riesce a produrlo?
Da tempo talune proposte vengono avanzate, alcune hanno anche avuto l’onore di divenire operative (mi riferisco all’individuazione di una quota parte di personale introdotta dalla “Buona Scuola”, poi velocemente accantonata), per cercare di dare maggiore concretezza alla più che ventennale autonomia incompiuta delle istituzioni scolastiche. In realtà le proposte e i tentativi si impaludano nell’insorgere del timore di un eccesso di potere, o di discrezionalità collocato ad un livello diverso (le scuole singolarmente o in rete) da quello centrale dell’amministrazione scolastica.
Paura che in qualche modo rimane sempre; tant’è che “l’algoritmo” è uno dei “mondi perfetti per evitare di essere buoni” (o forse cattivi) con la sicurezza asettica dei numeri e dei punteggi, attenuati al più dalle “precedenze” sempre però ben catalogate e misurate, da cui è categoricamente esclusa, come è ovvio, la valutazione della competenza in situazione.
Occorrerebbe smettere di aver timore e uscire dall’equivoco del potere, poco o tanto che sia, della preoccupazione, farisaica, per il carico ulteriore che si darebbe ai dirigenti scolastici (a cui però non si risparmia nulla, dalla cura dei soffitti alla verifica del green pass) per provare, monitorare, misurare e verificare l’efficacia del servizio, e la capacità di rispondere con maggiore flessibilità allo scopo della scuola, cioè educare e istruire dentro una relazione significativa tra insegnante e discente.
Peraltro, esempi efficaci ce ne sono e non mi riferisco ad altri paesi europei, e neppure voglio rievocare la pur significativa esperienza degli istituti tecnici, che al loro sorgere erano dotati di budget con cui provvedere a tutto il funzionamento, docenti compresi. Le paritarie, è noto, selezionano da sempre, in autonomia, il personale, ma esistono anche delle scuole statali (poche) come la Rinascita-Livi di Milano che applicano da tempo un loro sistema di individuazione del personale docente.
Si tratterà allora di valorizzare esperienze e originalità, ma soprattutto capacità di leggere il bisogno del contesto, il bisogno dei propri alunni e di rispondervi. Soprattutto in tempi rapidi e coerenti con il bisogno.
Sulla questione “tempo” occorre riflettere. Quando un docente arriva in una scuola in tempo? Su questo le attese, le speranze o i sogni dei dirigenti scolastici hanno subito una progressiva erosione. Per farmi capire: oggi è giovedì e il prossimo lunedì (seconda settimana di scuola) forse, sarò felicissimo di accogliere il drappello di docenti ancora mancanti all’appello. Verranno presi e “buttati” in classe a coprire i “buchi” dell’orario e dar respiro ai colleghi che hanno coperto quei buchi fin ora. Ci sarà tempo poi per i convenevoli, le reciproche conoscenze e per orientarsi nel nuovo contesto!
E dove è finita la mia aspirazione (ma mi pare anche quella del signor ministro) di averli a disposizione già dal 1° settembre per attivare le relazioni di team, “respirare” la nuova scuola, prendere confidenza con il contesto ed entrare nella progettazione didattica in modo proattivo? È stata sepolta sotto il fardello di una ripartenza in salita.
Ma allora quella relazione evocata da Papa Francesco la si deve accantonare? Vincerà l’arida giustapposizione di tra persone e pedine dello scacchiere dell’istruzione portatrici, forse, di tecnica e nozioni? O si potrà far riaffiorare la persona-persona, la sola capace di relazioni significative per accompagnare bambini e ragazzi a scoprire il mondo e le sue leggi?
Questa è la mia sfida. È la sfida sempre aperta del dirigente scolastico, sia che i docenti li abbia direttamente scelti, sia che siano stati collocati dall’algoritmo: stanare l’uomo o la donna rinchiusi nell’incarico e nella classe di concorso per affidare loro la storia e il destino degli alunni.
Ce la si può fare. L’ho intravisto negli occhi (di questi tempi solo quelli rimangono) dei docenti con cui si è potuto passare un po’ di tempo a preparare l’anno scolastico. Mi è parso di cogliere un guizzo, una scintilla, una possibilità di condividere l’avventura e la fatica del fare scuola. Ci vorrà tempo, lo si dovrà ricavare dando senso alle riunioni, facendole uscire da stanche routine e mettendo vita nei tanto aborriti “adempimenti burocratici”. A giugno si tireranno le somme, non solo delle valutazioni, ma anche di quanto più (o meno) interessante e significativo è stato il lavoro.
Però, signor ministro e signori del ministero, c’è ancora uno sforzo da fare. Magari facendo partire un po’ prima l’algoritmo, oppure buttandolo definitivamente.
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