La mia vita professionale è tutta intrisa dell’incontro con i ragazzi. Prima come docente, poi come dirigente scolastico e anche tecnico. Una presenza costante, volti, occhi, parole, silenzi che mi hanno sempre aiutato ad essere più delle mie idee e dei miei ruoli.

L’altro giorno, come dirigente di Ambito territoriale, ho incontrato gli studenti della consulta per il suo insediamento. Sono arrivati piano piano, a due a due, da tutte le scuole secondarie di secondo grado di Terni e provincia. Mi ero preparata a un tempo lungo, a una mattinata persa. Com’è vero che quando accade un incontro il tempo vince, non perde, mai. Dinamiche usuali, tutti seduti, compìti, negli scranni dell’aula gialla del liceo classico, ragazzi pronti ad ascoltare educatamente e a confabulare tra loro non appena gli adulti gli lasciano tregua. O a consultare il mondo dentro i cellulari che allungano le loro dita come Edward mani di forbice, il ragazzo geniale del film omonimo, un adolescente con due grosse forbici affilate al posto delle mani.



Non ho voluto dire nulla se non raccontare chi sono, da dove vengo, quanti figli ho, in cosa consiste il mio lavoro. E ho voluto ascoltare, la storia di ognuno di loro. Cosa pensano, cosa attendono da questo anno scolastico, per tanti anche l’ultimo, quello della maturità.

La maggior parte non si conosceva e perciò è stato interessante prestare attenzione. La narrazione è, infatti, l’unico modo pieno di parole a cui i nostri giovani, bombardati come a Kiev ogni giorno, prestano l’orecchio e risvegliano lo sguardo. Ovviamente ci eravamo messi d’accordo, noi, gli adulti, che li avremmo spinti ad essere protagonisti del momento, della scelta delle nuove cariche che andavano integrate, delle modalità con cui operare. Infatti, dopo le narrazioni, dopo le domande provocatorie, dopo le non-risposte (ci penso… ne voglio parlare con gli altri…vediamo, non so…) li abbiamo lasciati discutere tra loro e quando ci hanno richiamati per definire le operazioni di elezione delle cariche, non è stato necessario votare a scrutinio segreto, ma per acclamazione, con tanto di presentazione di percorsi di lavoro e applauso finale.



A dirla tutta erano alquanto pittoreschi. Alcuni con il vestito dello studente modello, altri alternativi, modelli anch’essi di una giovinezza che non si piega all’adultità formale. Per me è stata un’esperienza commovente di espressioni, gestualità, interiorità, musica. L’espressione di linguaggi che li mettono a proprio agio e lasciano fiorire i ragazzi nella propria potenza espressiva. Le loro scelte sono state al centro di una regia attenta che li ha provocati, interpellandoli. Chiamandoli per nome. Non era un’utenza colta. Cioè di studenti che tutti i docenti che fanno dell’insegnamento un mestiere e non una professione, vorrebbero avere. Quelli che hanno capito il cliché della ripetizione preconfezionata e che, intelligentemente, si limitano a replicare.



L’impresa è stata proposta a tutti, ma hanno risposto specialmente gli studenti fuori dagli schemi, quelli che con la lingua italiana non hanno il massimo della dimestichezza, che rifuggono dallo studio mnemonico, che avvertono la scuola come una noia impossibile, studenti che nel linguaggio trito della scolasticità definiremmo difficili.

E quale incredibile scoperta? Apparentemente banale? Che il compito educativo è quello di proporre e interpellare, non pontificare. Che bisogna cercarlo il ponte che ci mette in contatto con loro. Non basta gettarlo. Occorre che siano loro a volerlo percorrere. Che mollino. Che diano credito agli adulti. Che capiscano che li stai prendendo veramente sul serio, non per mettere dentro le loro teste delle nozioni, fossero pure i fondamentali della democrazia, ma per tirare fuori i desideri, le paure, i sogni. Occorre che capiscano che hai fiducia, che sei disposto ad ascoltarli. Così nasce il dialogo, perché i ragazzi si dispongono a parlare con noi, non a subire le nostre voci.

E il bello è che quando gli adulti fanno così, è per loro diretto specifico tornaconto: il mio cuore è pieno delle stesse domande che senti tu che hai tanti anni meno di me e perciò sei più puro. Così scatta la gratitudine come sentimento. La gioia è la forma più semplice di gratitudine, diceva Karl Barth. E con gioia, ancora una volta, mi inchino alla grazia di un incontro.

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