Moby Dick di Herman Melville, cap. 99. Il capitano Achab si ferma di fronte al doblone che nel capitolo 36 ha inchiodato all’albero maestro, quale ricompensa per chi dell’equipaggio avesse segnalato per primo “una balena dalla testa bianca, dalla fronte rugosa e dalla mandibola storta”. Scrive Melville:

“Ma un mattino Achab, mentre stava per voltare le spalle al doblone, parve interessarsi come mai prima alle figure e iscrizioni bizzarre che vi erano coniate, quasi cominciasse allora per la prima volta a interpretare a sé stesso in qualche modo maniaco quel qualunque significato che poteva nascondersi là sotto. E un sicuro significato si nasconde certo in tutte le cose, altrimenti tutte le cose varrebbero ben poco e il globo stesso del mondo non sarebbe che un simbolo vano…” (H. Melville, Moby Dick, tr. Cesare Pavese, Adelphi 1984, p. 453)



Dopo aver descritto minuziosamente le raffigurazioni presenti sul doblone, Melville dà la parola dapprima ad Achab e poi agli altri ufficiali della nave Pequod, i quali, uno dopo l’altro, osservando attentamente la moneta e riflettendo in essa il loro io, esprimono la loro concezione della vita, del cosmo, del bene e del male, del destino, del viaggio che stanno compiendo al seguito di un capitano in preda alla follia.



Durante una lezione in una prima liceo della Fondazione Grossman, alla fine dello scorso anno scolastico, giunti a leggere l’affermazione di uno dei personaggi: “Ecco un’altra interpretazione stavolta, ma il testo è sempre lo stesso. Uomini ce n’è di tutte le specie, in un mondo di una specie sola”, mi è venuto spontaneo proporre agli studenti di scrivere un testo in risposta alla domanda: “Che cosa direbbe il mio capitano osservando il doblone?”.

Alla lezione successiva ogni studente ha letto ai compagni il suo testo, si è discusso se lo stile di scrittura fosse compatibile con quello dell’autore e quale nuovo punto di vista sulla concezione del mondo portasse il capitano di ciascuno studente. I testi sono stati raccolti in una dispensa ed è stato assegnato come compito estivo rileggerli tutti, sceglierne uno, analizzarlo puntualmente e suggerire al compagno come migliorarlo per renderlo perfettamente inseribile nel capitolo 99, tenendo anche conto dello stile di Melville.



Rileggendo a mia volta la dispensa per prepararmi alla ripresa delle lezioni, mi sono resa conto dell’unicità, irripetibilità e profondità di ogni loro testo. Ogni studente ha parlato, attraverso il suo capitano, di aspetti diversi, esprimendo con accenti diversi, diverse convinzioni.

Uno ha parlato del mistero dell’io:

“No, no, no, non vale solo sedici dollari, c’è una realtà dietro di questo, un qualcosa di misterioso, il nostro io misterioso; perché, se non ci fosse, io non sarei qui a pensarci” (I.).

Altri dell’urgenza di trovare il significato delle cose, spesso soffocata dalla paura di non poterla dominare:

“Lì il sole, grande e luminoso. Non è buffo come in ogni civiltà il sole sia divinizzato? Greci, Egizi, perfino i misteriosi Aztechi. Tutto il mondo lo venera. Dovrà pur esserci un motivo. Ecco le montagne, mi paiono mani protese verso il sole, desiderose di toccarlo. Il cielo a dividerli. Ma numi del cielo, questa è l’umanità! – rabbrividì – . Tremo tutto, buffo come mi senta più piccolo di un vile doblone, nevvero? Ma ora basta: abbiamo una nave da governare” (G.);

della solitudine e del desiderio di compagnia:

“il capitano Michael ha concluso donandomi due sue profonde regole. La prima: chiedersi sempre il perché delle cose; la seconda: mai stare davanti alla realtà da soli” (S.);

dell’anelito alla felicità:

“Chissà da che parte penderà la bilancia della Sorte; il Sole la illumina e così illumina il nostro destino. Ma noi, uomini superbi, non guardiamo ciò che la stella rischiara, anzi fissiamo il Sole stesso e così ci accechiamo! Invece di vivere il Possibile, ambiamo all’Impossibile” (G.);

della fatica a essere liberi:

“Guarda ora quello che io sono, un capitano prudente e preoccupato di non essere abbastanza né per sé stesso né per gli altri; ho un grande dovere essendo un capitano, devo condurre tutti i miei marinai alla salvezza nonostante le difficoltà, ma tutto ciò mi impedisce di godere di ciò che ho di bello intorno, i miei picchi di ansie e tormenti coprono la luce dell’avventura, impediscono la vista della realtà” (A.);

del bisogno di appartenere a una storia:

“Guardando l’immagine impressa sul doblone, mi chiedo quali siano state le mani che lo hanno tenuto prima delle mie, quali siano stati i sogni e le speranze di coloro che lo hanno posseduto. E mentre contemplo questa moneta, mi sento parte di una storia più grande, una storia che si intreccia con quella di migliaia di altri individui che, come me, hanno affrontato sfide con coraggio e risolutezza” (S.).

Come mai il compito sul doblone ha favorito negli studenti la creatività, la profondità e la serietà nel lavoro? Una possibile risposta si trova nell’incipit del testo di C., la quale scrive:

“Anche il vicecomandante Henry espresse il suo parere sul doblone ma lo riferì a me soltanto, durante una notte in cui solo io e lui eravamo di guardia.

La notte scura era illuminata dalla luna piena che ci permetteva di vedere chiaramente il doblone il quale raffigurava tre vette e sopra di esse un grande sole. Il doblone ci saltò all’occhio poiché, mentre passeggiavamo in coperta, l’oro rifletteva la luce della luna ed Henry mi disse: – Ti sei mai chiesto cosa ci sia dietro a quelle vette? – questa domanda mi spiazzò, poiché non me l’ero mai posta e poi, anche se mi fosse venuta in mente, la mia prima risposta sarebbe stata che dietro a quelle montagne non c’era niente. Henry riprese: – può sembrare una domanda poco intelligente, eppure non lo è: il sole infatti illumina tutto, tutto! Insomma qualcosa dietro a quelle montagne deve pur esserci, anche se non possiamo vederlo; infatti non è che perché noi vediamo solo una parte delle cose, esse non celino qualcos’altro che rende il tutto più grande e completo”.

C. esprime, con altre parole, quanto propone il saggio L’incontro. Saggio di analisi della struttura dell’esistenza umana, nel quale il grande educatore Romano Guardini illustra come la persona prenda forma grazie alla dinamica dell’incontro, che non è appena l’imbattersi nella realtà, bensì il lasciarsi personalmente colpire dalla sua peculiarità e il prendere posizione in essa con il proprio agire: “Sono toccato dall’essenza di ciò che mi sta davanti; entro nel suo orizzonte di significato; mi sento invitato a prendere posizioni nei suoi riguardi”.

È l’intensità delle cose, la potenza della loro presenza, la loro promessa di significato, di bene, di valore che evoca e forma la persona. Ma occorre un capitano, dice C., che ti faccia percepire che quel doblone, il suo significato, è proprio per te, quasi come se fosse un segreto sussurrato proprio a te, un invito esclusivo.

E a quali altre condizioni accade l’incontro, così inteso? Guardini dice che esso ha come nemici l’abitudine, l’indifferenza e la presunzione e richiede “l’ora propizia”, la quale è condizionata da innumerevoli fattori:

“le mie forze e le mie condizioni fisiche; i miei diversi moti vitali, quelli consapevoli, ma anche in modo tutto particolare, quelli inconsci; ciò che finora ho provato, ciò di cui adesso ho bisogno, ciò cui tendono le mie inclinazioni interiori – tutto ciò deve trovarsi a coincidere in un fondamentale atteggiamento di sincerità, attenzione, disponibilità”.

Non va sottovaluta nell’educazione e nella didattica l’importanza di un clima, di un humus, in cui si possa serenamente essere sinceri, in cui gli elementi di distrazione siano riconosciuti come tali e vinti, in cui la disponibilità a porsi le domande, a confrontarsi, a mettersi in gioco sia apprezzata e valorizzata, affinché gli studenti non perdano “l’ora propizia” per l’incontro.

Solo quando l’incontro accade, infatti, nasce il lavoro personale: incontro e lavoro, dono e compito, obbedienza e libertà trovano una unità creativa, un’armonia feconda che soddisfa, realizza e orienta la persona in crescita, sempre corresponsabile della sua formazione:

“l’incontro viene donato, il lavoro è deciso e compiuto. Dall’incontro scaturiscono l’intuizione feconda, l’iniziativa creatrice, l’irruzione della novità; mediante il lavoro, tutto ciò acquista ordine e forma, e permane nel tempo. Da solo, l’incontro farebbe della vita un’avventura, inquieta e in balia dell’istante. Da solo il lavoro resterebbe privo di fecondità; tutto diverrebbe abitudinario, logoro, vecchio”.

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