Ho spedito l’articolo di Gianni Mereghetti apparso qui pochi giorni fa al mio amico Giuseppe. Sta in pensione Giuseppe, ma ero certo che si sarebbe sentito sollecitato da quanto scritto lì, che mi avrebbe chiamato per discuterne un po’. Invece, prima ancora che ne parlassimo insieme, mi ha mandato questa sua lettera per Luigi, il prof del centro di aiuto allo studio. Che io giro qui perché – e non avevo dubbi – la sottoscriverei parola per parola.



Carissimo Luigi,
so quanto sia importante quello che tu fai al centro di aiuto allo studio con Mohamed. Lo so per esperienza, perché anch’io per anni ho speso il mio tempo in un luogo così per aiutare tanti studenti. Dopo avere letto l’articolo di Gianni Mereghetti che racconta il dialogo con il tuo giovane allievo preoccupato per l’esame di maturità, avrei voluto scrivere una lettera direttamente a lui, a Mohamed. Per spiegargli che stava sbagliando.



Ma poi ci ho ripensato, perché come dici tu stesso forse “non serviva buttargli addosso le mille ragioni” che ho come adulto di fronte alla sua rabbia. Ricordiamolo: Mohamed non ti seguiva più mentre gli spiegavi una pagina di storia. Era distratto. E tu – che sai guardare in faccia chi ti sta davanti – hai capito che forse era meglio piantarla lì e ascoltare cosa si agitava in lui, tanto da renderlo incapace di qualsiasi concentrazione e disponibilità al lavoro.

Guardarlo con attenzione, ascoltare le sue paure e le sue ragioni era esattamente quello che ogni insegnante avrebbe dovuto fare. Ogni insegnante che sa che l’apprendimento nasce soltanto all’interno di una relazione, così come chiunque lavori all’interno di centri di aiuto allo studio ha potuto sperimentare.



Ma ascoltare non significa blandire, non significa giustificare. Non significa dare ragione. Posso anche comprendere Mohamed, meno invece chi, avendo il compito di aiutarlo in un percorso di maturazione di un giudizio critico nei confronti della realtà, non voglia assumersi la responsabilità di indicargli che quella maturità passa attraverso un compito preciso.

Nel colloquio con te Mohamed dice questa frase: “Io vorrei poter andare davanti agli insegnanti della commissione d’esame e poter dire loro che ho mantenuto vivo il desiderio di conoscere e raccontargli come. Questo, solo questo io vorrei!”. È un desiderio bellissimo, che testimonia una serietà che va presa sul serio.

Mohamed, insomma, non è uno che vuole evitare la fatica della seconda prova. Ma come mostra che questo suo desiderio è rimasto vivo? Credo che le tracce dei temi che quest’anno verranno proposte agli studenti consentiranno loro, come in ogni altra occasione, di raccontare la loro esperienza. Non in maniera astratta o improvvisata, ma facendo i conti con dei contenuti, con dei materiali che dovranno rielaborare, che dovranno essere in grado di far diventare personali.

Caro Gianni, che Mohamed possa dire come ha conservato il suo desiderio di conoscere paragonandosi a un testo di Montale o a un quadro di Hopper renderebbe forse la sua esperienza meno vera, o le sue parole troverebbero una maggiore consapevolezza e profondità? E se poi Mohamed nel tema volesse solo far esplodere la sua passione, i suoi slanci e le sue paure, confessandole in un testo meno ordinario, più originale, quasi fosse un grido o una canzone, qualcuno dei suoi insegnanti potrebbe scandalizzarsi?

Sono certo che Mohamed avrebbe tutte le opportunità di raccontarsi e probabilmente di raccontare anche come il centro di aiuto allo studio e tu stesso lo abbiate aiutato a recuperare quella curiosità, quella passione, quel desiderio di esplorare le cose che stanno alla base di un percorso di apprendimento. E la seconda prova lo confermerebbe: o le parole che Mohamed vorrebbe dire sono vere – e allora anche quella prova ne sarebbe la testimonianza; oppure, ma non voglio crederlo, sono solo fumogeni buttati negli occhi di chi gli sta davanti. E che però non deve spaventarsi e dargli ragione.

Chi gli sta davanti ha il compito di diradare quel fumo. Di provocarlo a guardare. Che poi questo provocare a guardare è il solo compito del maestro. O se vuoi – per dirla con le parole di Raffaela Paggi proprio su queste pagine – il compito di un maestro è attualmente quello di essere “un testimone di una passione alla realtà, a una realtà particolare (per qualcuno un testo, per un altro un contenuto di matematica, fisica, storia…), rapportandosi alla quale è possibile incontrare, esperire, verificare un senso. Testimone della vocazione all’universale di ogni particolare della realtà, trafficando intorno al quale lo studente, guidato dall’adulto e in dialogo con i compagni, può lasciarsi provocare, ridestarsi e mettersi all’opera con gusto e, a sua volta, con passione, acquisendo così gli strumenti, cognitivi e non, per affrontare quello che la vita gli presenterà”.

Sguardo e passione, caro Gianni. Quello sguardo e quella passione che Mohamed ha visto in te e che gli consente oggi di avere un desiderio vero e profondo nei confronti del suo esame. Che non serve al ministro per dimostrare la serietà della scuola, ma a Mohamed per mostrare la sua maturità, la sua umanità.
Grazie, caro Gianni. E buon lavoro a te e al tuo giovane allievo.

Grazie a te, Giuseppe. Io intanto giro la tua lettera al mio direttore. E in epoca di Twitter e storie Instagram questo strano giro di lettere che potrebbe avere il sapore di altri tempi è un bell’insegnamento anche per me: il tempo e la cura vanno insieme. In un centro di aiuto allo studio, come su un giornale.

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