Nell’epoca in cui la parola è quasi totalmente funzionale all’informazione tecnica, ritengo sia tanto più necessario recuperare la sua forma orale e dialogica anzitutto in ambito scolastico. Il primo scopo non è l’acquisizione di una nuova competenza – la capacità di esprimersi –, ma la comprensione di sé in relazione con il mondo, lasciando emergere quella domanda di senso che sorge naturalmente in ogni esperienza umana.
“Noi siamo un colloquio”, ricordava Eugenio Borgna, riprendendo il poeta Friedrich Hölderlin e i commenti di Heidegger. Colloquio come struttura dell’esistenza e non banalmente come intrattenimento o mezzo di trasmissione tra individui. È perciò necessario chiedersi qual è la sorgente di un vero dialogo che nella scuola possa diventare partecipazione attiva a un sapere.
Mi ha fatto riflettere recentemente una doppia domanda di una bambina di 8 anni. Un po’ preoccupata per l’impegno richiesto dalla scuola, chiedeva: “ma chi ha fatto il mondo con tutte queste cose? E io come faccio a impararle tutte?”.
Notate i passaggi che vi sono contenuti. Nel mondo si scoprono migliaia e migliaia di cose; è inevitabile chiedersi chi le ha fatte; e subito emerge il limite: “come faccio a impararle tutte?”. I bambini vogliono sapere tutto, si interrogano sul senso della totalità, ma si affacciano le prime incertezze sulla propria capacità di controllare la realtà. Noi adulti abbiamo creduto di rispondere a queste domande dando sempre più informazioni e tentando la via delle rassicurazioni (per lo più formali). Oggi pensiamo di educare, anche nella scuola, insegnando procedure, esercitando competenze, focalizzando traguardi, come se tutto questo bastasse per aiutare l’altro a percepire la promessa di bene contenuta nella realtà; e intanto crescono malesseri, disagi e sofferenze psicologiche anche gravi tra giovani e giovanissimi.
Senza un orizzonte di senso (“Chi ha fatto tutte queste cose?”), un oltre sperimentabile, l’educazione scolastica si riduce a tecnicismo soffocante, fine a sé stesso. Stiamo dimenticando che il punto di partenza per un’educazione umana è la realtà, la circostanza, i fatti e le cose con cui interagire, ma soprattutto i testimoni che allargano spazi e tempi in cui anche i primi “perché” del bambino, le prime paure che si affacciano nella sua vita possono incontrare un’ipotesi di risposta, diventare occasione di dialogo. A quella bambina bisogna dire che non si può sapere e spiegare tutto; insieme, tuttavia, possiamo imparare a guardare le cose senza averne paura. La parola diretta e personale è la prima forma in cui trovare un ambito di accoglienza anche (o anzitutto) delle nostre limitate capacità di comprensione. Nella parola detta e ascoltata è possibile riconoscere uno sguardo sul mondo che aiuta a vedere che non siamo soli, che possiamo avere fiducia e aprirci a nuove conoscenze in una tensione verso ciò che è più grande di noi. Allora, la geografia diventa apertura agli spazi terrestri, la storia diventa interesse per il tempo passato, l’arte scoperta della bellezza, la matematica rivelazione delle proprietà dei numeri, le scienze curiosità per ciò che succede in natura.
Nella crescita e nello sviluppo del bambino e lungo i secoli l’oralità ha sempre rappresentato una dimensione essenziale nella vita dell’uomo. Nella parola del dialogo l’incontro con l’altro e con il mondo si fa più coinvolgente.
L’oralità, per la con-presenza degli interlocutori, favorisce una visione delle cose non chiusa nella propria individualità. Ognuno porta già in sé questa percezione che trascende la propria individualità ed è già costituito come rapporto con altro-da-sé. Questa percezione, direi naturale, è tuttavia rafforzata e diventa desiderio, azione, operatività, intraprendenza più facilmente nella relazione dialogica. Nel dialogo esprimiamo il nostro modo di vedere le cose non esclusivamente soggettivo, ma aperto a un altro. L’altro che mi sta di fronte è colui che mi presenta il mondo e cerca la mia comprensione.
Per l’allievo il primo testimone è l’insegnante che gli presenta il mondo. L’oralità non è solo uno strumento con cui l’insegnante tiene la lezione (o svolge le interrogazioni di valutazione) e nemmeno soltanto un canale di ricezione per l’allievo. Essa vive come colloquio che tanto o poco provoca e cattura l’attenzione e anche la risposta dell’altro.
Nell’oralità il dialogo, ancora prima di uno spazio di argomentazione e di spiegazione, è incontro nel mondo in cui tutti siamo e che “si apre in modo diverso a ogni essere umano”, scriveva H. Arendt.
Questa interazione implica un certo grado di immedesimazione nell’altro, istante per istante, ma anche una maggior prossimità con il limite. Mi spiego. Nel confronto con una prospettiva differente dalla mia faccio esperienza del mio limite come soglia da cui incontrare l’altro a partire dallo stesso desiderio di bene.
Questa sottolineatura ha una enorme valenza educativa. Infatti, se è possibile, direi inevitabile, vedere le cose differentemente, allora anche l’esperienza umana del ì, è sempre aperta ad altro. Non è riducibile a un algoritmo che pretende di controllare tutta la realtà (“come faccio a conoscere tutto?” chiedeva quella bambina). L’esperienza umana si sviluppa in rapporto con altro (persone, cose, fatti, pensieri) e sfida la nostra libertà e responsabilità. A scuola (come in altri ambiti educativi) l’oralità rappresenta perciò una dimensione fondamentale della relazione e non ha soltanto una funzione strumentale.
L’oralità è espressione forte di un rapporto. È ascolto interessato dell’altro. Dio stesso lascia che Adamo dia un nome alle cose, alle bestie selvatiche e agli uccelli del cielo “per vedere come li avrebbe chiamati”, si legge nella Genesi. E, scrive Rémi Brague: “Dio dunque rischia di dover imparare qualcosa dall’uomo e ne conferma le decisioni, lasciandolo agire da legislatore”.
Le dinamiche innescate dall’oralità favoriscono l’irruzione di altro-da-me. È ciò che capita anche nel rapporto fra insegnanti e allievi quando la relazione si fonda su un vero desiderio di bene che spalanca al mondo.
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