Caro direttore,
nel panorama di fine agosto ho da anni un appuntamento irrinunciabile con il Meeting di Rimini che mi risveglia dal torpore estivo e suggerisce inevitabilmente spunti per la ripresa dell’anno scolastico.

Ho partecipato così al convegno La scuola si racconta. Nuovi linguaggi per un dialogo con i giovani che mi è parsa l’occasione perfetta per ripartire.



Ho apprezzato la modalità di intervento dei relatori che ha visto l’introduzione del moderatore Carlo Di Michele, presidente di Diesse, e l’alternarsi della voce del campo con  quella dei “tecnici”. Abbiamo infatti ascoltato l’intervento di cinque docenti di vari ordini di scuola che hanno condiviso esperienze didattiche significative, contestualizzate, ricche di suggerimenti, di strategie e metodi espressi in modo chiaro e comprensibile nella loro efficacia educativa, un esempio perfetto di buone pratiche da sperimentare, come accade nei migliori corsi di aggiornamento. È stata poi la volta dei tecnici ovvero Tommaso Agasisti, Politecnico Milano; Daniela Notarbartolo, formatrice; Roberto Ricci, presidente Invalsi; Marcello Tempesta, docente di pedagogia, Università del Salento, che riprendendo in parte il contributo dei docenti hanno toccato temi fondamentali del fare scuola.



Non è mia intenzione stilare un resoconto puntuale ma cogliere alcune suggestioni che vorrei trattenere come orizzonte nel quale porre la mia azione di docente.

In particolare la mia attenzione si è concentrata su un paio di quesiti centrali che sono stati posti: in quale direzione si muove la scuola? Cosa realmente apprendono gli alunni?

Sono riflessioni da aver presenti quando si opera nel mondo dell’educazione dove si propongono modelli e soprattutto percorsi con obiettivi di apprendimento da conseguire.

Nell’ottica di un iter chiaro e tracciabile è innegabile l’importanza del curricolo verticale (citato da più relatori) che obiettivamente costituisce la spina dorsale dei saperi che si vogliono trasmettere affinché siano raggiunte le agognate competenze chiave.



Il passaggio cruciale è stato il riconoscimento del valore del contributo dei docenti (i primi ad intervenire) che con inventiva e personalità cercano di rispondere alle esigenze educative sempre più complesse delle classi eterogenee e spesso problematiche (sia per la scarsa disciplina sia per le importanti lacune nelle conoscenze e strumentalità di base), utilizzando strategie e linguaggi condivisibili che possono diventare patrimonio comune.

Altra indicazione che non vorrei dimenticare è quella del presidente dell’Invalsi, che ha auspicato di poter ridurre l’impatto del contesto sulla qualità dell’apprendimento e cioè che si eliminino sempre di più le disparità tra chi proviene da ambienti poveri o culturalmente poco stimolanti e quelli che possono contare su famiglie agiate e migliori strumenti,  tra Nord e Sud Italia, tra centro e periferia, tra alunni italiani e stranieri di prima e seconda generazione, tanto per intenderci.

Una sfida da cogliere, da porsi come obiettivo accanto a quelli cardine del raggiungimento del successo formativo e del contrasto alla dispersione scolastica.

È determinante il richiamo all’importanza del già citato curricolo verticale quale strumento efficace, in quanto indica i punti di partenza e di arrivo per le competenze raggiungibili nei vari step dal livello iniziale, a quello intermedio o completo (nella migliore delle ipotesi) e che dettaglia la programmazione delle discipline in termini di strategie, obiettivi, metodologie di ogni anno scolastico del primo ciclo (dalla classe prima primaria alla classe terza della secondaria di primo grado). Da solo però non basta, ovvero rischia di essere un documento scritto e programmatico, vetrina per gli istituti comprensivi ma poi disatteso nella realtà dei fatti e non declinato nel lavoro in classe e tanto meno nella valutazione.

Quel che è emerso chiaramente dai contributi dei docenti intervenuti è che la programmaticità richiesta dal ministero si struttura in modo serio attraverso la personalizzazione degli obiettivi. Proprio perché la provenienza e la competenza iniziale e individuale degli alunni è disuguale (e non si deve accentuare questa disparità) occorre necessariamente differenziare la proposta educativa all’interno della classe e garantire un percorso positivo per tutti (o quasi), a ciascuno secondo il proprio livello.

Bello e meraviglioso sarebbe lavorare per classi aperte con laboratori e altre strategie innovative (proposte dalla formatrice) che nelle nostre scuole (nella maggior parte di esse) non sono praticabili, per inadeguatezza delle strutture, carenza del personale e scarsa capacità organizzativa.

È comunque possibile mettere al centro lo studente anche senza stravolgere la modalità “classica” di aula, come testimoniato dalle esperienze condivise dai docenti intervenuti.

Ci si allontana necessariamente dalla lezione cattedratica, la cosiddetta lezione frontale, se si ha presente coloro che abbiamo di fronte, li si osserva, li si ascolta, si stabilisce una sintonia. Soprattutto però vanno personalizzate le attività e in particolare i momenti della verifica degli apprendimenti.

Ottimo il suggerimento di proporre una riflessione continua sul fare scuola, come avvenuto in questa occasione, che andrebbe calendarizzato e dettagliato e occorrerebbero tavoli di dialogo (o piattaforme) strutturate in modo da mettere a tema i vari punti salienti (competenze, valutazione, successo formativo e lotta alla dispersione scolastica, volendo ridurre la lista all’essenziale).

Il convegno ha infatti evidenziato quanto sia ricco di spunti un dialogo fra le parti aprendo la prospettiva di un possibile confronto onesto e duraturo tra chi lavora in aula e “i tecnici”, che sarebbe davvero interessante non finisse qui.

In questo senso acquista valore e dignità piena la professione di docente, spesso screditata e sempre meno rispettata, perché acquisisce una credibilità seria di fronte agli studenti, portati a  riconoscere un’autorevolezza efficace ma in particolar modo di fronte alle famiglie che negli ultimi anni sono sempre più disorientate e che invece, in un dialogo franco, si sentono accolte e comprese.

Quando si stabilisce un rapporto di fiducia, gli alunni sono disposti ad ascoltare e imparano quel che viene trasmesso, seguono le indicazioni e si dispongono in atteggiamento critico (fanno domande, pongono obiezioni)  ma non polemico e il docente assume un ruolo maieutico, cioè davvero educativo, traendo fuori il meglio da ciascuno di loro.

Senza fiducia non c’è apprendimento, ogni strategia la più innovativa risulterebbe inefficace: solo infatti in una relazione leale è possibile educare e favorire l’apprendimento.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI