La discussione in corso su scuola esigente o no può trovare interessanti spunti in quanto sta avvenendo in Francia. Cominciando dal fondo, l’ex ministro dell’Educazione nazionale Gabriel Attal è stato nominato da Macron primo ministro il 9 gennaio scorso anche – si dice – grazie alla grande popolarità acquisita presso l’opinione pubblica francese per i provvedimenti annunciati sulla scuola. Attal aveva sostituito in estate il ministro Pap Ndiaye, professore di storia sociale delle minoranze, che aveva soprattutto lavorato sulla necessità di evitare la polarizzazione sociale delle scuole per ragioni di equità.
La linea di Attal sembrava diversa e si era delineata già da prima che i risultati PISA, particolarmente negativi per la Francia, dessero un’accelerata; è da lì che è derivata la popolarità del ministro.
Il quale già dall’estate si era fatto notare per i provvedimenti di proibizione dell’abaya (veste femminile che copre tutto il corpo integrata dal velo) in ambito scolastico, perché considerata un simbolo religioso in un ambito in cui storicamente la laicità è sempre stata un valore fondamentale. Tanto più in quanto la Francia registra una significativa e storica immigrazione dalle ex colonie e conseguenti significativi problemi sociali e di ordine pubblico. Nell’ultimo periodo due insegnanti sono stati assassinati – uno decapitato – da radicalizzati islamici.
I cambiamenti preannunciati si concentrano sul livello del collège (la nostra scuola media più il nostro primo anno delle superiori) a dimostrazione della delicatezza di quel passaggio, che viene considerato critico anche in Italia. Probabilmente più che dell’inefficacia della scuola si tratta di una situazione dovuta alle caratteristiche dell’età, che vede maturare sempre più anticipatamente le burrasche dell’adolescenza e che i diversi Paesi europei affrontano in modi antitetici: con un tronco comune prolungato i Paesi nordici e con una scelta precoce i Paesi di cultura tedesca. I Paesi latini stanno in mezzo: un tratto comune seguito dalla scelta, che in Francia avviene un anno dopo rispetto all’Italia. Ed il tormentone delle discussioni sul collège unique viene da ben più da lontano che da Attal.
Ci si propone innanzitutto di ridare agli insegnanti la decisione finale sulle promozioni degli allievi, che attualmente sono sottoposte al consenso dei genitori. La Francia è sempre stato un Paese scolasticamente molto più meritocratico dell’Italia: una delle sue idee forza è sempre stata quella della creazione della élite republicaine di napoleonica memoria. Ed infatti la sua classe dirigente viene per lo più della famosa ENA (École Nationale d’Administration) che il primo Macron ha già riformato nel 2021 ammorbidendone le caratteristiche, prima di tutto eliminandone la concentrazione in Parigi, anche questo un tratto tipicamente francese. La percentuale di selezione fra le annualità al collège era nel passato molto alta ma negli ultimi decenni si era – come in tutto l’Occidente – significativamente ridotta, dando peraltro luogo a forme di selezione più sottili ma altrettanto efficaci. La misura proposta è perciò di fatto soprattutto simbolica e mira a ridare autorità al ruolo dell’insegnante, che anche in Francia, nonostante gli stipendi decisamente più decorosi di quelli italiani, è in pesante crisi.
Sempre su questo lato si propone che gli esami finali del collège siano effettivi e che il loro esito positivo sia precondizione necessaria per l’iscrizione al triennio superiore finale. Probabilmente tutte e due le misure proposte avranno destato qualche stupore in Italia, perché neppure da noi si era giunti a tanto. Ma non bisognerebbe dimenticare che di fatto nel nostro Paese la situazione non si discosta molto: la pressione dell’opinione pubblica e quella diretta dei genitori, i cui ricorsi si moltiplicano, fanno sì che di fatto, sia nel corso della scuola media sia al suo termine, le bocciature siano riservate a casi particolari e molto evidenti.
Peraltro il fatto che i risultati di apprendimento effettivi al termine del collège francese non contino è ampiamente compensato dal fatto che l’iscrizione ai diversi percorsi superiori è legata al giudizio di orientamento degli insegnanti, che ovviamente per suo mezzo esprimono un giudizio nel merito delle capacità degli allievi.
Forse la misura più significativa è quella che prevede la separazione degli allievi su tre livelli nelle materie di base (francese e matematica) dopo un test iniziale, anche se sono previste possibilità di passaggio. Non è del tutto chiaro se questa separazione riguarda tutte le attività o solamente quella cruciali indicate. In Italia di fatto questa possibilità esiste già con la legge sull’autonomia, cioè con la possibilità di articolare le classi, anche se in misura parziale. Ci sono state esperienze in questo senso, anche se non molto numerose, non molto prolungate e soprattutto poco divulgate e studiate. Il mondo della ricerca internazionale le ha studiato un po’, ma i pareri sembrano essere discordi, anche – si ha l’impressione – perché inficiati da presupposti ideologico-valoriali molto diffusi e non solo nella ricerca italiana. Da una parte si rileva il rischio di una ghettizzazione dei livelli più bassi e pertanto di un abbassamento del livello culturale e sociale complessivo di una società, dall’altra si sottolinea che la presenza nei gruppi e nelle classi dei livelli superiori tende ad annichilire gli sforzi di chi potrebbe migliorare, se affidato alla competizione fra pari. In tal modo, inoltre, sarebbe possibile una didattica più mirata. Sarebbe interessante se questo, che si preannuncia come un mega-esperimento francese, fosse adeguatamente studiato.
Da ultimo un po’ di leggerezza: in alcune zone si tenterà l’esperimento della divisa scolastica obbligatoria. Le finalità sembrano essere molteplici: strumento di espressione di appartenenza, attenuazione delle differenze sociali espresse soprattutto oggi attraverso l’abbigliamento, concentrazione sulle finalità cognitive della scuola. Nel nostro Paese questa misura, che è stata qua e là tentata, è stata addirittura vista da alcuni come attentato alle libertà, ed anche nei pochi riferimenti alle misure francesi passati nella stampa italiana questo problema ha avuto il suo bello spazio. Fabbricanti di abbigliamento ed influencers invocherebbero probabilmente la Costituzione.
C’è da domandarsi da dove venga questo trend francese. PISA è importante, ma quasi tutto l’Occidente è scivolato pericolosamente per la china e si è aggrappato al Covid per spiegare i risultati deludenti. Spiegazione convincente? Vedremo al prossimo PISA, ma, per quanto riguarda l’Italia, giova ricordare che nell’ultimo Invalsi il Trentino non ha affatto registrato peggioramenti Covid, contrariamente alle altre regioni, tanto che al seminario nazionale Invalsi è stata dedicata un’apposita ricerca ad un tentativo di spiegazione del fatto.
Forse la Francia anticipa una riflessione che dovrebbe essere di tutti i nostri Paesi e che riguarda i successi delle tigri asiatiche da oramai parecchie edizioni. Anche la mitica Finlandia è scivolata, nonostante le (o forse a causa delle?) riforme mainstream apportate. Ma non si tratta solo di PISA. In un contributo del novembre 2023 del CSET (Cyber Security for Energy and Transport) si analizzano i numeri assoluti ed in percentuale dei laureati STEM a livello mondiale basandosi su dati UNESCO e OCSE. In percentuale con una tendenza in crescita dal 2016, abbiamo il 41% in Cina, il 37% in Russia, il 36% in Germania, il 33% in Iran, il 30% in India, il 26% in Francia, il 26% in Messico ed il 20% in USA. In crescita particolare, soprattutto in termini assoluti, Messico e Brasile. E le lauree STEM sono sempre più un indicatore dello sviluppo scientifico e tecnologico di un paese. In Italia una ricerca pubblicata sull’ultimo numero di lavoce.info ci informa che, a distanza di 10 anni, i numeri delle STEM femminili non sono migliorati, nonostante le numerose iniziative istituzionali e scolastiche in proposito. La conclusione: bisogna cominciare dal pre-scuola, perché gli stereotipi sono nella società.
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